
giovedì 31 luglio 2008
Spari intimidatori nei quartieri per il controllo della droga

martedì 29 luglio 2008
Il boss della sanità Salvatore Torino era pronto alla guerra

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Le rivelazioni del pentito Salvatore Torino
Le rivelazioni di Giuseppe Misso 'o nasone, per anni boss incontrastato del rione Sanità

«Ho dovuto ingoiare altri rospi e addirittura ho dovuto colloquiare con persone che avevano partecipato all’omicidio di mia moglie ovvero Peppe Ammendola. O quando poi ho accettato di intavolare una discussione con Eduardo Contini per il tramite di Salvatore Savarese e Ciro De Marino,che andarono a parlare con lui dopo aver lasciato i mezzi. L’ho fatto perché per me era conveniente creare un clima apparente di tregua. Una volta scarcerato, dopo che era già venuto Salvatore Lo Russo, si presentò da me anche Ciro “’o scellone” con il nipote Michele, figlio di Vincenzo Mazzarella, per dire che conveniva anche a me fare la pace seguendo il loro esempio, poiché l’avevano fatta nonostante fosse morto il padre per mano di Secondigliano». Il 12 marzo scorso il boss pentito Giuseppe Misso “’o nasone” (all’anagrafe Giuseppe Missi) raccontò ai pm antimafia Amato, Narducci e Sargenti le sue peripezie verbali e comportamentali per giungere allo scopo che si era prefissato: vendicare la morte della moglie, Assunta Sarno. Le sue dichiarazioni sono accusatorie nei confronti di molte persone, le quali naturalmente devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova contraria. Una precisazione importante, che facciamo sempre in casi del genere. «Uno dei rospi che ho dovuto ingoiare è stata la presenza di Pasquale Cappuccio nel rione Sanità. La vicenda è andata avanti per lungo tempo poiché il mio obiettivo era quello di ammazzarlo solo dopo averlo torturato e avergli fatto confessare che lui era stato un infiltrato dell’Alleanza di Secondigliano e in particolare di Eduardo Contini. Io già lo sapevo, ma anche Cappuccio diffidava di me e quindi per questa ragione, quando veniva a trovarmi, si faceva accompagnare sempre da un fratello. Dissi quindi a Salvatore Savarese che doveva far prendere fiducia a Pasquale Cappuccio, cosicché l’avremmo ammazzato solo dopo che lui avesse cominciato a fidarsi nuovamente di me. È questa la ragione per cui si è trovato coinvolto in fatti eclatanti come l’agguato alle Fontanelle. Poi, alla fine, la morte di Pasquale Cappuccio avvenne per un’iniziativa riconducibile ai Mazzarella. Un tale “Pirulino”, uomo dei Mazzarella che viveva alla Sanità, venne da me e mi chiese se Pasquale Cappuccio, che viveva e operava nella zona dei Tribunali, fosse una persona mia in quanto loro, in particolare Francesco Mazzarella e i nipoti di Vincenzo Mazzarella, non si fidavano. Avevano dunque deciso di ammazzarlo ma volevano sapere da me se potevano farlo oppure no. Io dissi a “Pirulino” che Cappuccio non era mio amico e che loro potevano fare quello che volevano. Così poi Cappuccio fu ucciso proprio per mano delle due persone che sono state processate e condannate per il delitto». Giuseppe Misso senior il 12 marzo scorso ha parlato anche dell’organizzazione dell’agguato a Vito Lo Monaco, un rapinatore d’alto livello di origini siciliane che si era legato molto al boss del rione Sanità. Per questo non si fidava di nessuno e per sorprenderlo, secondo il racconto del collaboratore di giustizia, c’era un solo sistema: farlo avvicinare da suoi ex complici nell’assalto a banche e portavalori. «Anni dopo seppi che la Cupola di Secondigliano che era stato proprio Pasquale Cappuccio a mettere in contatto Salvatore Esposito “cavolfiore” (poi ucciso dal clan Misso per vendetta, il 23 ottobre 1999) e “o’ francese” con Contini e la Cupola. Era stato quindi organizzato un piano per sorprendere e portare in trappola Vito Lo Monaco, che altrimenti non sarebbe stato possibile ammazzare. Così “Cavolfiore” e “O’ francese”, che avevano commesso molti colpi con Lo Monaco, lo portarono sulla Tangenziale».
L'omicidio di Vito Lo Monaco raccontato dal boss pentito Giuseppe Misso

il pentito Maurizio Frenna parla della faida del rione Sanità

Il ritratto fatto dai Misso al boss arrestato Vincenzo Pirozzi

«Era molto bravo a guidare la moto, per questo mio zio Giuseppe lo volle come componente del gruppo di fuoco del clan Misso». A parlare è Emiliano Zapata Misso, che nel corso di un interrogatorio, allegato al decreto di fermo, descrive il ruolo di Vincenzo Pirozzi quale killer del clan. Proprio la sua abilità con la moto ne faceva un componente ideale per eseguire gli omicidi. È lo stesso Zapata insieme con il fratello Giuseppe “’o chiatto” a tirarlo in ballo per l’omicidio di Felice Cerbone (per il quale Pirozzi non è indagato), avvenuto alla Maddalena nel ’99. Ecco il racconto: «Il delitto di Cerbone avvenne quando mio zio era già tornato libero. Cerbone commetteva estorsioni nella zona della Maddalena senza versare nulla al clan Mazzarella, che controllava quella zona, e prendendo i soldi per sè. Michele Mazzarella chiese a mio zio Giuseppe di poter utilizzare un killer del gruppo Misso per uccidere Felice Cerbone anche perché sosteneva che la prima persona sospettata, nel caso di un delitto sarebbe stato lui. Mio zio Giuseppe incaricò del delitto Vincenzo Pirozzi “’o picuozzo”, al quale ultimo Michele Mazzarella promise che avrebbe avuto un bel regalo in soldi. Pirozzi era affiancato da Angelo Marmolino detto “mezzalingua” del gruppo Mazzarella e i due insieme avrebbero dovuto portare a termine questa esecuzione. Il giorno in cui avvenne il delitto, per due tre volte Vincenzo Pirozzi ed Angelo Marmolino si recarono nella zona della Maddalena allo scopo di individuare e sorprendere Felice Cerbone, ma non lo trovarono. Quando tornarono da Michele Mazzarella, quest’ultimo si arrabbiò perché diceva che era impensabile che Cerbone non stesse lì nella zona dove commetteva le estorsioni. Infatti, lo trovarono subito e Michele Mazzarella lo ammazzò mentre Vincenzo Pirozzi guidava il motorino, su cui erano andati in zona. Posso riferire queste circostanze in quanto mi sono state raccontate da Vincenzo Pirozzi, il quale mi disse che Cerbone era morto vicino ad un negozio di scarpe».
Arrestato Giulio Pirozzi: è il reggente dei Lo Risso del rione Sanità

Arrestato Raffaele Cuccaro: è il boss di Barra

Preso a Casalnuovo il boss ex cutoliano Giuseppe Esposito
Arrestato, alle prime luci dell’alba del 23 Luglio, dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Castello di Cisterna, in esecuzione ad un provvedimento cautelare della DDA di Napoli, il potente padrino cutoliano Giuseppe Esposito alias “Pepp 'o Schizzo”, personaggio molto noto tra i “ponticellari” vicino ai Sarno. L’ordinanza cautelare disposta dalla Dda di Napoli è stata concretizzata sulla scorta delle dichiarazioni rese dai pentiti Paolo Di Grazia (marito della figlia dell’arrestato) e successivamente confermate dal collaboratore Giovanni Messina, personaggio emergente della mala acerrana, che aveva dato vita ad un cartello criminale, operante tra Casalnuovo, Acerra, Caivano e la stessa Carinaro, in provincia di Caserta. Giuseppe Esposito, 49 anni, pluripregiudicato, meglio noto come “Pepp 'o Schizzo”, che per anni è stato ritenuto elemento di punta del sodalizio criminale capeggiato dal boss della Nco, Raffaele Cutolo, da tempo si era trasferito a Casalnuovo, dove per qualche tempo si era anche trasferita la figlia che aveva sposato il collaboratore Paolo Di Grazia. L’uomo, tornato libero dopo una lunga detenzione, aveva da qualche tempo iniziato ad occuparsi di ristorazione, partecipando alla gestione familiare di un noto “ristorante” ubicato lunga la centralissima via Benevento (che congiunge Acerra a Casalnuovo), che risulterebbe essere intestata ad una congiunta. Quando i carabinieri si sono presentati sull’uscio dell’abitazione, il 49enne non ha opposto alcuna resistenza, invitando i suoi familiari a mantenere un atteggiamento “rispettoso” del lavoro dei carabinieri. Insomma un atteggiamento tipico di un “uomo di rispetto” d’altri tempi. Secondo il capo d’accusa contestato all’indagato (sulla scorta delle dichiarazioni rese da Paolo di Grazia e Giovanni Messina), Giuseppe Esposito avrebbe avuto un ruolo di prim’ordine nell’omicidio di Salvatore Gaglione, commesso a Carinaro il 12 aprile del 1996, per il quale avrebbero avuto un ruolo, oltre ai due “eccellenti” pentiti (Messina e Paolo Di Grazia), anche Riccardo Di Grazia (anch’egli collaboratore di giustizia), Salvatore Belforte, Modestino Cirella e Cuono Piccolo, già tutti indagati per questo procedimento penale, che ha visto il proprio avvio nel 2004, facendo scaturire tutta una serie di ordinanze cautelari in carcere che hanno colpito personaggi di grosso spessore criminale, non solo della mala napoletana ma anche di quella casertana. Resta chiaro che nel corso delle prossime ore, dinanzi alle contestazioni del giudice delle indagini preliminari che ha firmato il provvedimento cautelaivo, l’indagato (il cui nome era stato sempre marginale all’inchiesta) potrebbe avvalersi della facolta di non rispondere, anche per permettere al suo legale di fiducia di prendere correttamente visione di tutte le dichiarazioni rese dai due “pentiti”, che con i loro racconti hanno falcidiato un intero cartello criminale, che partendo da Carinaro (facendo capo ai Di Grazia) e passando per Acerra (guidata da Mario De Sena, Messina,ecc ), Caivano (Castaldo – alias O Farano), Casalnuovo (Gallucci- Piscopo), Volla ed infine “Ponticelli” (Sarno), aveva dato vita a quella che era già stava battezzata “La nuova camorra Organizzata 2”. Organizzazione che vedeva tra i principali partecipi i vecchi e nostalgici cutoliani, sempre affascinati dalle gesta del mitico “Professore” di vesuviano. Tornando alla fase investigativa, che sembra comunque inestinguibile, è chiaro che le dichiarazioni rese già nei mesi passati da Giovanni Messina (che tra l’altro si è autoaccusato dell’omicidio eccellente di Raffaele D’Urso Caterino - genero del boss Cuono Crimaldi alias “Cuniello 'e Capasso), sommate a quelle già rese dai due fratelli Di Grazia e dal fedelissimo Francesco Paccone (alcune delle quali ancora segregate), stanno rendendo sonni inquieti a decine di personaggi, molti dei quali, citati nei verbali d’interrogatorio, ma per i quali comunque non poteva essere emessa alcuna misura detentiva. In ogni modo, l’arresto di “Pepp o Schizzo, lascia presagire l’avvio di una nuova stagione di “pentimenti”, anche se sembra abbastanza chiaro che qualcuno di questi pentimenti sono da considerarsi “pentimenti ad orologeria”, buoni per ogni stagione.
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Arrestato Giuseppe Esposito,
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martedì 22 luglio 2008
Muore anche Vincenzo Valentini, il 22enne che era con Vincenzo Sinno a Caivano
È morto ieri mattina alle 5,20 nel centro rianimazione dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno dopo tre giorni di agonia. Vincenzo Valentino, 22 anni. Il giovane ha avuto la sfortuna di trovarsi in auto con il boss Vincenzo Sinno al Parco Verde. Sulla testa del ras, che era uscito dal carcere da circa un mese e stava riorganizzando i suoi affare al Parco Verde, pesava una condanna di morte da parte dei clan avversari. Una raffica di proiettili si è abattuta sui due, massacrando Sinno e ferendo in maniera gravissima il 22enne. Valentino, incensurato, era residente a Caivano sulla Circumvallazione Ovest, nel rione Iacp. Il magistrato ha disposto sul corpo del giovane l’autopsia, che aiuterà gli inquirenti a capire meglio le esatte dinamiche dell’agguato. Intanto, il corpo del ras Sinno sarà consegnato oggi alla famiglia. Il questore ha vietato, per motivi di sicurezza, i funerali. Per questo la salma verrà benedetta prima di essere poi tumulata nel cimitero. È ancora caccia aperta ai killer. Perquisizioni ed uno stube ad alcuni pregiudicati del Parco Verde per risalire al commando di fuoco. Sinno, 39 anni, pregiudicato per reati di estorsione e droga, era ritenuto in passato vicino al clan Pezzella era stramazzato al suolo dopo aver aperto la portiera della fiammante fiat punto su cui era salito da poco. L'uomo era fuori dai giri da circa dieci anni da quando era stato chiuso in cella per un cumulo di pene. La sua uscita lo ha visto finire nel mirino della malavita locale. A pagare per essersi trovato in sua compagnia il giovane incensurato che ora lotta in un letto di ospedale dopo essere rimasto crivellato da numerosi colpi di pistola. Due colpi ad un gomito con fori di entrata ed uscita, un proiettile al torace alto. Uno alla nuca, probabilmente quando nel tentativo di fuga a piedi il giovane si è allontanato dal veicolo che guidava. I killer volevano finirlo ma probabilmente il timore di essere bloccati dall'imminente arrivo dei carabinieri li ha fatti desistere prima che il giovane spirasse. Valentino era stato soccorso dagli uomini del 118 e per quel proiettile alla testa è stata necessaria una delicatissima operazione che ora lo vede in rianimazione presso l'ospedale San Giovanni Di Dio e Ruggi d'Aragona. Il giovane era stato trasferito qui dopo essere giunto in gravissime condizioni presso il più vicino nosocomio frattese. Le sue condizioni rimangono gravi ma sono stazionarie. In tanto le indagini serrate dei carabinieri della Compagnia di Casoria procedono senza sosta. In queste ore sono stati ascoltati i parenti della vittima che hanno ricostruito dinnanzi agli inquirenti nei dettagli l'ultimo mese del pregiudicato che era uscito di carcere dopo una condanna di dieci anni. Nell'immediato sono state effettuate perquisizioni presso alcune abitazioni di pregiudicati ed è stato fatto uno stube, per il cui risultato si dovrà attendere. Si cercano elementi chiave che possano ricondurre al commando. Nel mirino anche le armi che hanno fatto fuoco esplodendo circa una quarantina di colpi. Sarebbero quattro una sette e settantacinque, una calibro trentotto, una 9 per per 21 ed un kalashnikov. Altrettanto quattro potrebbero essere i killer spietati portatori di morte e di un messaggio di sangue. inquirenti non escludono alcuna pista per risalire al movente dell'efferato omicidio.
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La camorra di Caivano
Il pentito La Sala delinea la nuova situazione al Rione Sanità

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L'attuale situazione al Rione Sanità
Arrestati due affiliati al clan Misso, ma il "pezzo grosso" Antonio Cardinale è sfuggito all'arresto

Le rivelazioni di Salvatore Torino sulle vicende interne ai Lo Russo

Le alleanze si sanciscono a colpi di mitragliette. Questo è quanto ha raccontato l’ex boss del rione Sanità Salvatore Torino che da alcuni mesi ha iniziato la sua collaborazione con la giustizia. «Per dimostrare la considerazione che io avevo alla Sanità e dal clan Misso, venne ucciso un ragazzo, un tale Enzo, da Maurizio De Matteo e Misso Emiliano Zapata, poiché questo ragazzo mi aveva fatto una sgarberia, volendosi rubare un mio motorino a sua volta rubato, che io avevo affidato ad un ragazzo della Sanità. Fu poi lo stesso Misso Giuseppe che accolse il nostro gruppo scissionista alla Sanità, essendo interessato alla nostra disponibilità a portare attacchi omicidi contro l’Alleanza di Secondigliano ed in particolare contro il clan Licciardi. Ricordo come significativo, in tal senso, un incontro sopra un terrazzo tra Giuseppe Misso, Ettore Sabatino, Michele e Savio Armento, al quale presenziai anche io. Già prima vi erano stati altri analoghi incontri fissati dal clan Misso per il tramite del mio suocero Ciro Beninato. Ricordo bene l’incontro sul terrazzo dell’abitazione di Umberto Misso perché ad un certo punto iniziò a volteggiare un elicottero e sapemmo che era stato ammazzato al mercato il nipote di Ettore Sabatino. So che questo omicidio è stato commesso da Antonio Lo Russo, figlio di Giuseppe e da Pompeo, genero di Salvatore Lo Russo. In risposta a questo omicidio, ma soprattutto per accreditarci definitivamente con il clan Misso, che richiedeva da noi la prova di aver tagliato i ponti con Secondigliano, commettemmo l’omicidio di Murolo che era dei Licciardi».
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Le rivelazioni del pentito Salvatore Torino
Il pentito Vassallo "sull'affaire monnezza" denuncia i Casalesi
Il prezzo per lo stoccaggio di rifiuti speciali in Campania era stracciato, imbattibile sul mercato. Così le ditte del nord si passavano la voce e stoccavano le scorie prodotte dalle loro industrie nelle campagne di Giuliano, Aversa, Trentola Ducenta, Ischitella. In cambio ricevevano delle false fatture maggiorate del prezzo realmente pagato. La ditta di stoccaggio faceva questo piacere, così loro nello storno della dichiarazione dei redditi riuscivano ad ottenere un rimborso maggiore di Iva. Registi di questo immenso disastro ambientale e fiscale erano imprenditori insospettabili e camorristi-manager diretti dal boss Francesco Bidognetti. Il 19 Luglio la Direzione distrettuale antimafia, ha dato esecuzione ad un decreto di sequestro probatorio di otto discariche abusive dopo le indagini. Otto siti tutti ricompresi tra Giugliano e Aversa, in campagne che solo apparentemente erano adibite a coltivazioni ma che in realtà nascondono delle bombe-ecologiche senza pari. A svelare il patto tra camorra e imprenditori è stato Gaetano Vassallo. L’uomo (era libero anche se indagato in più processi proprio per la contiguità con il clan dei Casalesi) un bel giorno si è presentato alle porte della Questura ed ha raccontato di volersi pentire. Grazie ai suoi racconti gli investigatori hanno messo sotto inchiesta 17 persone, 9 delle quali fratelli dello stesso pentito. Un sistema che lui stesso definisce perfetto e che permette alla camorra di fatturare decine di milioni di euro ogni anno. Le società di stoccaggio ricevevano dal nord tutti i rifiuti che difficilmente le altre ditte autorizzate riuscivano a smaltire a costi contenuti. I carichi arrivano su dei tir e venivano scaricati così com’erano nelle campagne. «Per ogni chilogrammo di rifiuto conferito nella mia discarica io guadagnavo 10 lire al chilogrammo ». Gaetano Vassallo è un fiume in piena e riempie pagine e pagine di verbali che hanno arricchito le conoscenze degli investigatori e degli inquirenti che indagano sul clan dei Casalesi e sul business del traffico di rifiuti speciali proveninenti dal nord Italia. Milioni e milioni di euro che ogni anno venivano accumulati dai fratelli Vassallo, tutti denunciati per concorso esterno in associazione camorristica e per disastro ambientali, che usavano in parte per pagare tangenti ai funzionari e in parte per comprare immobili, alberghi e auto di lusso. Ecco cosa ha raccontato l’ex imprenditore ora passato a collaborare con lo Stato. «Gli accordi con Francesco Bidognetti e con Gaetano Cerci si articolavano in due modi distinti, in un caso, qualora i rifiuti speciali e solidi urbani extraregionali, venivano smaltiti effettivamente presso la discarica, io provvedevo a versare 10 lire al chilo a Cerci, somme che consegnavo mensilmente in contati. Ero io personalmente a tenere i conteggi e usavo portarmi da Cerci cui esibiso i documenti di contabilità accompagnati da un brogliaccio manoscritto nel quale annotavo i ricavi, In base ai miei conteggi calcolavo le 10 lire al chilo e consegnavo le somme a loro. Circa 15 milioni di lire al mese». È lo stesso pentito a raccontare come faceva a raggirare il clan. «Io evitavo sempre di contabilizzare correttamente i ricavi così da evitare di pagare di più a loro. Cerci infatti non riusciva a tenere bene i conti e per me era facile ingannarlo, essendo questi impegnato a considerare contemporaneamente sia la mia discarica, sia quella di Luca Avolio e di Cipriano Chianese. Ovviamente la possibilità di fare questo mi era data anche dalla circostanza che i produttori e i trasportatori erano riservati e non dicevano nulla. Io glielo chiedevo espressamente». «La contabilità in nero fu parzialmente da me bruciata e sotterrata nel giardino dell’abitazione di mia madre a Cesa, nel periodo che precede il mio arresto del 1993. Era una precauzione per evitare problemi di natura fiscale». «Questa operazione è l’ennesima dimostrazione che i traffici di rifiuti con il corollario di disastri ambientali, oltre a rappresentare un business per la criminalità organizzata, rappresentano un serio problema di sicurezza e come tali devono essere affrontati». La camorra, come pure gli altri sodalizi criminali, si è sempre caratterizzata come movimento anti-ecologista. Fin dalla sua nascita ha avuto la pretesa di trasformare il territorio, di controllare e gestire ogni suo singolo mutamento. Quasi tutti i business malavitosi hanno un forte “impatto ambientale”, manifestando un evidente spregio per la natura, gli uomini, gli animali. Del resto controllare un territorio, trasformarlo secondo le proprie pretese, significa esercitare al meglio il dominio su persone, animali e cose che vi appartengono». Per anni e anni hanno sversato di tutto nelle campagne tra Giugliano ed Aversa. Ci hanno costruito su palazzi, condomini dove scorrazzano bambini di ogni età. Ci hanno costruito su delle scuole e anche delle strade arse dal sole in estate e allagate d’acqua d’inverno. Ma ai camorristi non frega nulla. Il vero problema è che oramai l’inquinamento ha raggiunto dei livelli altissimi. Dicono i pubblici ministeri a pagina 87 del decreto di sequestro probatorio che il danno procurato all’ambiente conseguente all’attività svolta dagli imprenditori collusi è davvero incommensurabile e difficilmente reversibile. Per questo il reato che contesta la Procura è di disastro ambientale e nei prossimi giorni partiranno i rilievi disposti dalla Procura. Le otto discariche sequestrate sono state indicate tutte dal collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo. Il 29 maggio inizia a parlare dei rifiuti e racconta in poche righe ciò che è la sintesi più raccapricciante di ciò che sta avvenendo a Napoli e in provincia e in buona parte del casertano. «In poche parole, tutto il sistema dei rifiuti, sia gli rsu che i rifiuti speciali, nelle diverse fasi della gestione stessa, ad esempio il trasporto, lo smaltimento, la raccolta, era completamente gestito e controllato dalla criminalità organizzata e ciò si nel periodo in cui la raccolta era affidata ai privati, sia nel periodo in cui la gestione è poi passata al pubblico con le ecoballe. Non era assolutamente possibile che una società non collegata e non indicata da uno dei clan operanti nelle zone dove i rifiuti venivano gestiti potesse avere anche solo una piccola parte di lavoro. Chi lavorava nel settore dei rifiuti lo faceva solo se era stata preventivamente individuata dalla criminalità organizzata e questa aveva dato il suo placet. In sostanza un camion di una ditta non collegata non avrebbe mai potuto lavorare, caricare, scaricare, movimentare rifiuti per uno di questi siti. Nei pressi di Giugliano, spiegano gli inquirenti della Dda, c’è una collina formata dall’accumulo di materiale nocivo: pneumatici triturati, rifiuti farmaceutici, oli industriali, batterie di auto, auto distrutte, rifiuti cimiteriali e ospedalieri. Non c’era un solo materiale che non potesse essere occultato sotto le campagne del giuglianese. A nessuno interessava se la falda acquifera era distante a poche decine metri di profondità e se fosse già in atto un inquinamento delle acque. Lì i topi morivano, gli infetti fuggivano e non cresceva neanche un filo d’erba. La “monnezza” del nord creava un deserto al sud e ricchezza nelle tasche dei camorristi. Gli imprenditori dello stoccaggio, ha spiegato poi Vassallo, accumulano soldi che destinavano in parte a pagare tangenti ai funzionari pubblici corrotti. Ci sono indagini in corso per individuare le ditte che erano a conoscenza di questo meccanismo e le responsabilità degli enti pubblici coinvolti che avrebbero dovuto controllare e non l’hanno fatto.
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La monnezza
venerdì 18 luglio 2008
Ucciso a Caivano Vincenzo Sinno vicino al clan Pezzella
Era uscito dal carcere un mese fa , pregiudicato crivellato di colpi in un raid di morte al Parco Verde. Muore in una pozza di sangue Vincenzo Sinno, 39 anni, pregiudicato residente nel rione della 219 vicino al clan Pezzella. Ferito ed in gravi condizioni Vincenzo Valentino, incensurato, 24 anni, residente al rione Iacp, che accompagnava Sinno ed era alla guida di una fiammante Fiat Punto grigia. La loro partenza a bordo di quell'auto nel Parco Verde si è interrotta nella piazzetta centrale intitolata a Padre Pio ad un passo dal supermercato e alle spalle del bar. I primi soccorritori e quanti si sono affacciati e sono accorsi a verificare l'accaduto, hanno potuto osservare l'auto guidata da Valentino con al fianco Sinno bloccata con le ruote posteriori poggiate su un marciapiede con alle spalle uno spiazzo dell'isolato da cui l'autovettura stava per scendere. Sinno era caduto ad un passo dalla portiera crivellato di colpi, Valentino era ancora vivo e chiedeva aiuto stramazzato al suolo un po' più avanti sotto i colpi incalzanti del commando che credeva fosse morto e si è dileguato. La scena si è svolta ad un passo dall'isolato 4 C. L'ultimo proiettile esploso era ben distante da dove l'auto si è bloccata in una scia di colpi che ha forato frontalmente il parabrezza dell'auto con dei fori al lato del guidatore e del passeggero. Sinno che risiede proprio qui era appena sceso dalla sua abitazione e senza avere neanche il tempo di scambiare una battuta con il suo accompagnatore è stato freddato da un commando di fuoco. Almeno quattro, considerando i differenti tipi di pistola usati, i killer spietati che hanno scaricato gli interi caricatori di una 7 e sette e settantacinque, di una calibro trentotto, di una nove per 21 e qualche colpo di un kalashnikov. L'agguato potrebbe essere stato messo a segno da almeno quattro persone a bordo di motorini, considerando l'esigenza di una veloce fuga e di fare perdere ogni traccia in quello che è un vero e proprio labirinto di viuzze ed isolati. Un raid punitivo portato a termine solo a metà. Valentino è stato soccorso dagli uomini del 118 e accompagnato prima presso l'ospedale San Giovanni Dio e successivamente in un nosocomio salernitano. Sul posto sono giunti i carabinieri della Compagnia di Casoria. I militari hanno circoscritto l'intera zona e hanno effettuato i rilievi del caso. I colpi contati in terra sono almeno diciannove, quelli che hanno forato la carrozzeria dell'auto un'altra quindicina. I militari hanno ascoltato i familiari ed i presenti alla ricerca di eventuali testimoni scontrandosi con un muro di omertà ed hanno avviato le indagini del caso in quello che rappresenta la roccaforte dello spaccio. Sinno aveva sicuramente legami con la criminalità locale. Una tra le prime piste battute dagli inquirenti la possibilità che una volta uscito di carcere stesse tentando di riinserirsi nell'organigramma della malavita che vede il parco verde diviso in differenti il suo ritorno a casa. La sua volontà di riprendere a far parte di legami e accordi potrebbe essergli costata cara. Tutte ipotesi queste ora al vaglio degli inquirenti che tuttavia non escludono nessuna pista e stanno passando al setaccio la vita del pregiudicato morto cercando di risalire a fatti che gettino luce su l'ennesimo omicidio di camorra. Vincenzo Sinno era uscito di carcere appena un mese fa. Aveva scontato una condanna per estorsione, rapina e reati per droga. Questa la chiave di lettura di questo omicidio. Era residente al Parco Verde. L'agguato di stampo camorristico che ha portato alla morte del pregiudicato è incentrato sulla sua figura. Su tutti i suoi ultimi movimenti in quei trenta giorni d'aria dopo le sbarre. In questo mese potrebbe essere accaduto qualcosa che lo ha visto finire nel mirino della malavita locale. Uno sgarro, una richiesta di riprendere le attività legate al Parco Verde o semplicemente una scelta autonoma che ha visto la fine dei suoi giorni. Secondo le prime ricostruzioni potrebbe essere stato legato ad un clan dell'hinterland partenopeo la cui vicinanza potrebbe essergli costata cara. La vittima sarebbe stata vicina al clan Pezzella. Un legame che lo avrebbe visto finire nel mirino. Sinno non era armato così come non lo era il suo accompagnatore. Un segno che lascia pensare che l'uomo girava senza alcun dubbio di essere braccato. Nell'abitacolo dell'auto non è stato trovato un briciolo di sostanza stupefacente. Nulla che possa fare ricostruire una pista che conduca al movente. Eppure ora resta tra la vita e la morte l'unico testimone che ha visto la scena dell'agguato e che potrebbe fornire elementi utili alle indagini. Vincenzo Valentino è per ora l'unico che potrebbe tra l'altro fornire notizie sugli incontri e le frequentazioni dell'uomo. Di sicuro sapeva dove i due si stavano recando nell'immediato dopo pranzo di ieri e se avevano un appuntamento o un impegno. Le indagini nelle prossime ore e la possibilità di acquisire altri importanti tasselli potrebbero indirizzare gli inquirenti sulla giusta pista per la risoluzione dell'agguato.
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La camorra di Caivano
Scoperto patto di droga tra il clan Di Lauro e la famiglia calabrese degli Alvaro
È un’inchiesta, manco a dirlo, nata da un’intercettazione telefonica. In essa Patrizio De Vitale, fedelissimo dei Di Lauro ammazzato l’anno scorso durante la coda della faida, parlava con alcuni trafficanti di droga all’estero. Uno spunto che si è rivelato decisivo per arrivare all’emissione di 7 ordinanze di custodia cautelare, eseguite ieri dai carabinieri nei confronti di altrettanti esponenti del clan Alvaro di Cosoleto (in provincia di Reggio Calabria). Nel mirino, ma finora solo a livello di “sospetti”, sono finiti anche alcuni pregiudicati napoletani di Secondigliano. Le indagini, iniziate dal Nucleo investigativo di Napoli nel 2005 su un più ampio contesto riguardante la faida di Secondigliano, erano finalizzate ad individuare i canali di approvvigionamento dello stupefacente utilizzati dal clan Di Lauro per importare cospicui quantitativi da distribuire sul territorio nazionale. Un primo sviluppo consentiva di individuare pregiudicati partenopei collegati ad un gruppo criminale calabrese, il quale poi si rese autonomo dai pregiudicati di casa nostra impegnati soprattutto nella terribile faida con gli “scissionisti”. L’attività ha consentito di individuare 8 indagati (uno si è reso latitante) distribuiti tra la Campania, la Calabria, l’Emilia Romagna, la Liguria e la Spagna, ognuno dei quali con compiti specifici in ordine alle diverse fasi dell’importazione e della distribuzione dello stupefacente nel territorio nazionale. La cosca calabrese aveva assegnato ad uno degli arrestati la liquidità necessaria a condurre le trattative per comprare lo stupefacente con la facoltà di concluderle autonomamente, saldando contestualmente ogni singola fornitura. La fase di importazione dello stupefacente avveniva mediante collaudati sistemi di trasporto su autocarri, appositamente modificati al fine di garantirne l’occultamento. A riscontro del “modus operandi” adottato dalla consorteria, in data 15 aprile 2006, in San Bartolomeo a Mare, provincia di Imperia, militari del Nucleo Investigativo di Napoli procedevano al sequestro di 7 chili di cocaina, occultati in un’intercapedine ricavata nella parte posteriore di un autoarticolato e al conseguente arresto dei corrieri provenienti dalla Spagna. In manette sono finiti Demetrio Franceschetti, Rocco Gullace, Carmelo Meliendo, Antonio Morabito, Brunello Moraldo, Franco Posticini, Salvatore Scrivo. Una curiosità relativa sempre a Patrizio De Vitale rigurda in cane "carnera" di ciruzzo 'o millionario. Paolo Di Lauro aveva pagato ben 100 milioni di lire “Carnera”, un mastino napoletano definito dagli esperti uno dei più “belli” d’Italia: un cane che vinceva premi dovunque e del quale il boss andava fiero. L’aveva affidato, dimostrando grande fiducia nei suoi confronti, proprio a Patrizio De Vitale. Un affetto ricambiato dal 47enne con il suo interessamento nel trovare al superlatitante un nascondiglio sicuro. Patrizio De Vitale non aveva grossi precedenti a carico, anche se era finito più volte nel mirino delle forze dell’ordine e della magistratura. Durante la fase più cruenta della faida sparì improvvisamente dalla circolazione per un paio di mesi e gli
inquirenti, che seguivano le sue tracce attraverso le intercettazioni telefoniche e ambientali, pensarono addirittura a un caso di lupara bianca vista la vicinanza con i Di Lauro. E invece non era così: semplicemente, questa l’analisi dei pm, il pregiudicato non voleva prendere parte alla guerra né avere in qualche modo una parte attiva. Però era a conoscenza di diverse cose e ascoltandolo, gli investigatori chiarirono il contesto di due omicidi. La prima volta Patrizio De Vitale salì alla ribalta della cronaca a settembre del 2002. Allora il prezioso cane del padrino soprannominato “Ciruzzo ‘o milionario” fu trovato chiuso in una gabbia buia e umida, digiuno e assetato, una infezione sul dorso causata dalla cattiva alimentazione, le ferite sul corpo che si era fatto da solo, quasi impazzito a star chiuso tra cemento e sbarre. In un casolare fetido era rinchiuso Carnera.
inquirenti, che seguivano le sue tracce attraverso le intercettazioni telefoniche e ambientali, pensarono addirittura a un caso di lupara bianca vista la vicinanza con i Di Lauro. E invece non era così: semplicemente, questa l’analisi dei pm, il pregiudicato non voleva prendere parte alla guerra né avere in qualche modo una parte attiva. Però era a conoscenza di diverse cose e ascoltandolo, gli investigatori chiarirono il contesto di due omicidi. La prima volta Patrizio De Vitale salì alla ribalta della cronaca a settembre del 2002. Allora il prezioso cane del padrino soprannominato “Ciruzzo ‘o milionario” fu trovato chiuso in una gabbia buia e umida, digiuno e assetato, una infezione sul dorso causata dalla cattiva alimentazione, le ferite sul corpo che si era fatto da solo, quasi impazzito a star chiuso tra cemento e sbarre. In un casolare fetido era rinchiuso Carnera.
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Patto di droga tra i Di Lauro e i Calabresi
Arrestata Patrizia Licciardi: è la sorella del boss 'o chiatto
Soldi e quote di società in cambio di tranquillità o semplicemente “per non avere guai”. Avevano trovato un ottimo sistema per arricchirsi la sorella dei boss Licciardi di Secondigliano e il marito: coppia affiatata nella vita e anche nel “lavoro” evidentemente. Secondo gli investigatori (fermo restando la presunzione d’innocenza fino a un’eventuale condanna definitiva) avevano messo da molti anni sotto pressione un commerciante all’ingrosso di Arpino di Casoria, ma il sospetto è anche altri siano stati costretti a versare tangenti. A Terracina, in provincia di Latina, sono stati i carabinieri della compagnia di Casoria insieme a colleghi della stazione di Arpino di Casoria a eseguire al decreto di fermo emesso il 15 luglio scorso dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli per estorsione con l’aggravante dell’articolo 7 della legge Falcone. Secondo l’accusa Eduardo Marano, 49 anni e Patrizia Licciardi, 41enne, avvalendosi della forza intimidatrice derivante dal legame con il clan Licciardi per ragioni di parentela, ricorrevano ad estorsioni anche per impinguare le casse dell’organizzazione malavitosa con base nella Masseria Cardone. Marito e moglie sono originari di Secondigliano ma da qualche temposi sono trasferiti a Terracina in via della Vittoria e proprio a casa sono stati bloccati e ammanettati all’alba di ieri. L’attività investigativa della stazione di Arpino di Casoria ha permesso di raccogliere elementi “inconfutabili” (secondo gli autori delle indagini ma naturalmente ora al vaglio della magistratura giudicante) a carico degli arrestati. I due, dal 2002 al giugno 2008, avrebbero partecipato all’attività di estorsione del clan Licciardi ai danni di commercianti ed imprenditori della zona. Questi ultimi, sottoposti a continue minacce e intimidazioni, per far fronte alle pressanti richieste erano costretti al pagamento di somme di denaro o ad alienare proprietà in loro possesso. Fino a quando un grossista, ridotto al dissesto finanziario e determinato persino a togliersi la vita, è stato convinto dai carabinieri a desistere dall’intento e a denunciare le angherie subite. L’uomo avrebbe versato nel corso del tempo all’organizzazione criminosa beni per più di 1 milione di euro. I due fermati (lei, incensurata, sorella di vincenzo “’o chiatto” e maria “’a piccolina”; lui già noto alle forze dell’ordine e ovviamente cognato dei ras) erano sotto osservazione dei carabinieri di Terracina, che stavano indagando per capire se volessero trasferire il modello criminale fuori zona. Ma non erano emersi indizi a loro carico sufficienti per un’altra misura restrittiva. I fermati sono stati trasferiti alle case circondariali di Latina e Roma-Rebibbia e nei prossimi giorni saranno interrogati dal gip.
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Il clan Licciardi della Masseria Cardone
Sequestrati i beni al ras degli Scissionisti Rosario Pariante

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Il Ras degli Scissionisti Rosario Pariante
domenica 13 luglio 2008
Pasquale Scotti della NCO di Cutolo è ancora vivo?
Di sicuro c’è solo che non è morto. Almeno, non per i familiari. Lui, Pasquale Scotti, l’imprendibile super-latitante della camorra cutoliana degli anni Ottanta, ha lanciato nella confusione generale un impercettibile segnale a chi sa leggere la filigrana sottile del codice della malavita, testimonianza di vita nascosta tra le righe del manifesto funerario del fratello Giuseppe. L’uomo, 51 anni, è morto il 27 giugno scorso a Casoria, stroncato da una malattia. Le vecchie indagini sulla Nco ne hanno descritto, in più di un’occasione, il ruolo di gestore occulto e attento degli affari (illegali e non) del più famoso fratello, costretto a una fuga senza fine dopo la rocambolesca evasione dall’ospedale civile di Caserta, la notte del 24 dicembre 1984. Da allora, di Pasquale Scotti non si sono più avute notizie: si è ipotizzato, addirittura, che potesse essere rimasto vittima - lui che ne era il maestro - della lupara bianca, inghiottito da qualche tonnellata di cemento armato utilizzata per lastricare sperdute autostrade della provincia partenopea, o ucciso dal peso dei segreti di quella sciagurata stagione di connivenze tra politica, servizi segreti e criminalità organizzata. Invece, non sarebbe così: perché a Caivano e a Casoria, dove sono comparsi poco più di due settimane fa i manifesti funerari, c’è un particolare che non è passato inosservato alle centinaia di occhi che li hanno letti e alle centinaia di bocche che ne hanno parlato e alle centinaia di orecchie che hanno ascoltato. Poco sotto la notizia della scomparsa di Giuseppe Scotti, infatti, c’è scritto: «Ne danno il triste annuncio la moglie, il figlio, le figlie, la mamma, il fratello, la sorella, i cognati i nipoti e i parenti tutti». E in paese si sa che Giuseppe Scotti aveva un solo fratello: Pasquale. Fare domande in giro è impossibile, cercare di comprendere che cosa significhi questo messaggio offre, nella migliore delle ipotesi, un’unica risposta: sguardi nervosi e carichi di paura. Gli anziani che trovano ristoro nei pressi della chiesa di San Benedetto, a Casoria, dove si sono svolte le esequie, voltano la faccia dall’altro lato. Tranne uno, che quasi si arrabbia perché, a distanza di così tanti anni, ancora si parla di “Pasqualino”, come lo chiama quasi con affetto. La sua spiegazione è questa:«Forse per il resto della famiglia non è morto e scriverlo sul manifesto è un segnale di speranza». Ma se non fosse così e fosse davvero vivo, bisognerebbe forse riscrivere gli ultimi venti anni di storia criminale napoletana e rimettere le mani in quel cesto di vipere popolato da spioni, killer, terroristi e politici privi di scrupoli che - racconta il libro pubblicato recentemente da Tullio Pironti, I misteri della camorra - «lasciarono morire nella prigione del popolo il presidente della Dc Aldo Moro per salvare un discusso assessore regionale di nome Ciro Cirillo». E proprio la turpe storia di Ciro Cirillo - sussurrano in paese - potrebbe essere stata la condanna a morte di Pasquale Scotti. O la sua assicurazione sulla vita.
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Pasquale Scotti della NCO di Cutolo
venerdì 11 luglio 2008
Il 30enne Gennaro Cirelli è il nuovo reggente del clan Licciardi
Un tempo neppure molto lontano il clan Licciardi era gestito solo da Licciardi. Gennaro ’a scigna è stato il primo leader della dinastia. Poi, dopo la sua morte, sono arrivati Pierino ’o fantasma, Vincenzo ’o chiatto e Maria la piccolina. Tutti fratelli. E tutti accomunati da un incredibile spessore criminale. Grandi menti della camorra. La famiglia erano loro. Loro e loro soltanto. I figli, gli eredi, i designati successori al trono, sono altra cosa. Altra ‘pasta’, altro carisma. Meglio, senza carisma. Nel clan lo sapevano tutti, e ne erano consapevoli pure i boss, al punto tale che sono stati gli stessi padrini a scegliere come loro vice e futuro capo un estraneo, uno che in famiglia c’era entrato grazie ad un lontano rapporto di parentela acquisito per il tramite della moglie. Gennaro Cirelli, la stoffa del camorrista doc, ce l’aveva davvero. Benché giovane, più vecchio ma solo di poco dei fratelli Giovanni e Pietro Licciardi, che, all’indomani dell’arresto degli zii, già assaporavano il momento in cui avrebbero impugnato lo scettro del potere, certi di meritarlo in ragione del fatto che il padre era il potente e temuto Gennaro ’a scigna. Loro, gli eredi, sono rimasti delusi. Scavalcati da un gregario quasi sconosciuto agli archivi delle forze dell’ordine. Gennaro Cirelli, Gerry per gli amici, è sotto processo insieme al boss della Torretta Rosario Piccirillo ’o biondo per usura ed estorsione ai danni di un imprenditore. Avrebbe fatto da mediatore tra la vittima e il malavitoso: questo sostiene la procura, questo è quello che i giudici della prima sezione penale del tribunale puntano a capire. Il processo è ancora in corso e Cirelli lo sta affrontando da libero. Nella sua fedina penale nessun’altra macchia. Eppure di lui dicono che è un capo. Il vero capo. “Il solo che aveva la possibilità di mantenere le alleanze con gli altri clan”, ha spiegato ieri mattina Vittorio Pisani, il capo della Squadra Mobile. Ma anche quello che “cura in ausilio di Antonio Errichelli la corresponsione agli affiliati” e che predispone le azioni di fuoco. Ci sarebbe la sua mano dietro alcuni degli agguati che si sono consumati nella Masseria Cardone durante la scissione dal clan operata da Giovanni Cesarano. Gli inquirenti ne sono certi e hanno inserito la loro convinzione negli atti dell’inchiesta che ieri mattina è culminata nell’esecuzione di 38 ordinanze di custodia cautelare in carcere. “Nel clima di tensione creatosi a seguito della scissione operata da Giovanni Cesarano - c’è scritto nel provvedimento di fermo - egli organizza, unitamente ad Antonio Errichelli, l’attentato a Vincenzo Allocco, ormai transitato tra le fila degli scissionisti dei Cesarano. Ed ancora organizza l’attentato alla vita di uno degli avversari scissionisti del rione Berlingieri, probabilmente Francesco Feldi”. Un boss a tutti gli effetti. Che ha assunto in via definitiva il comando dallo scorso 7 febbraio, giorno in cui è finita la latitanza di Vincenzo Licciardi con il quale Gerry era in “contatto diretto” e dal quale riceveva le direttive. I figli di Gennaro ’a scigna i suoi secondi. Ma non perché fossero particolarmente capaci. “Per ragioni dinastiche erano anche loro i capi - ha spiegato Pisani -, ma non prendevano decisioni sulle questioni più importanti quali erano le alleanze”, anche perché quando l’hanno fatto, quando sono stati messi alla prova, hanno giocato male la possibilità loro accordata “dimostrando - si legge nell’ordinanza - una certa incapacità nella gestione del clan, che aveva cagionato anche diversi malumori tra gli affiliati e gli alleati”. Anche quest’era è finita. Dei Liccardi non resta quasi più nulla.
La situazione attuale della camorra a Nord di Napoli - 2°parte
La tregua siglata tra clan Di Lauro e ‘spagnoli’ aveva stabilito nuovi confini. I gruppi di spacciatori avevano dovuto adeguarsi e ‘migrare’ da una piazza all’altra. Gli equilibri restano precari, anzi sono tornati precari. Gli scissionisti, quelli che la prima ‘grande guerra’ per il controllo delle piazze di spacico dell’area nord l’hanno vinta, sono stati protagonisti di quelle ‘eliminazoni a orologeria’ che servivano a regolare i conti in sospeso. “Gigino gestisce al piazza di spaccio di piazzetta Berlingieri e si rifornisce dai Licciardi”. E’ quanto emerse dai verbali del pentito De Carlo che parlò dei nuovi assetti degli affari e del territorio nella zona di Secondigliano. “E’ organico al clan e commette anche azioni di fuoco per i Licciardi della Masseria Cardone”. E’ molto cambiato l’assetto dalla gestione dei Di Lauro. Era un’organizzazione perfetta quella gestita dai Di Lauro. Un’organizzazione soporattutto "moderna’. I traffico di stupefacenti gestito come un vero e proprio ‘multilevel’ e Paolo Di Lauro è stato il primo narcotrafficante ad applicare il ‘multilevel’ allo spaccio di stupefacenti. Ma ora le cose sono cambiate. I nuovi sviluppi investigativi hanno lasciato emergere una realtà che sta mutando di continuo. E anche su questa transazione il vertice della piramide ricavava ulteriori introiti derivanti soprattutto dall’“affitto” dei suoli (le piazze) sulle quali avveniva la compravendita di sostanze stupefacenti. Ora la droga non viene comprata “all’ingrosso” e successivamente lavorata. La droga viene acquistata dall’organizzazione già divisa in dosi pronte ad essere spacciate e i vertici, che hanno scelto di bypassare tutte le figure intermedie, la rivendono direttamente ai pusher. I grossi calibri dell’Alleanza hanno quindi colonizzato rioni e quartieri col placet degli scissionisti. Ma quando un personaggio ha uno spessore tanto ingombrante, fa quello che nella sua indole sente di fare: conquistare sempre più spazio e più potere. E’ così, con quest’anelito di espansione, che tra i Licciardi e i cosiddetti ‘spagnoli’, sono cominciati gli attriti. Chi era stato messo al vertice di alcuni rioni chiave (affiliati della prima ora al gruppo della Masseria Cardone) ha deciso di farsi largo, di prendere spazio, anche a costo di mettersi contro il direttorio di cui allora era al vertice il padrino Vincenzo Licciardi. Questioni di soldi. Gli scissionisti dei Licciardi (a differenza di quelli dei Di Lauro) hanno un nome: si chiamano Sacco-Bocchetti. E alle loro spalle si staglia imponente l’ombra dell’organizzazione malavitosa dei Lo Russo del rione San Gaetano.
La situazione attuale della camorra nell'area Nord di Napoli

Decapitato il clan Licciardi della Masseria Cardone

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Il clan Licciardi della Masseria Cardone
Sentenza per i Di Biase dei Quartieri Spagnoli
Per anni, i Di Biasi, all’indomani dell’uscita di scena della famiglia Russo, hanno gestito gli affari illeciti nei Quartieri Spagnoli. Ieri 8 Giugno , poco dopo le cinque, il giudice delle udienze preliminari della venticinquesima sezione penale del tribunale di Napoli ha firmato la prima sentenza di condanna che individua i Faiano come malavitosi. Dieci le persone ritenute colpevoli per i reati, contestati a vario titolo, di associazione di stampo mafioso e racket, 106 gli anni di reclusione complessivi stabiliti al termine del processo definitosi con la modalità del rito abbreviato. Una vittoria processuale che premia un lungo lavoro investigativo iniziato sulla scorta di intercettazioni telefoniche e poi arricchitosi dalle dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia, molti dei quali ex gregari dei Di Biasi passati dalla parte dello Stato all’indomani della retata che nella primavera dello scorso anno azzerò la famiglia dei Quartieri Spagnoli la cui ascesa era stata benedetta, come raccontato dalle gole profonde, dai Mazzarella prima e dai Misso poi. Il pugno di ferro è stato usato nei confronti di Luigi Di Biasi, ritenuto il capo indiscusso del clan: nei suoi confronti sono stati disposti diciassette anni, nove mesi e dieci giorni di galera, una pena di non molto inferiore a quella proposta dal magistrato inquirente che sperava in una condanna a 20 anni. Severo anche il verdetto pronunciato per Renato Di Biasi, fratello di Luigi: 13 anni, 10 mesi e 20 giorni. Dodici anni, due mesi e venti giorni sono stati invece inflitti a Ciro Saporito, colui il quale si occupava del racket delle estorsioni per conto della cosca. Dopo di loro la pena più alta disposta è quella che ha interessato un collaboratore di giustizia: Raffaele Scala, il cognato dei Di Biasi, ha rimediato 11 anni e nove mesi per camorra con l’aggravante di capo e promotore. Poteva andargli peggio: il gup gli ha concesso l’attenuante prevista per i collaborati di giustizia, prendendo le distanze dalle conclusioni del pubblico ministero che per l’imputato aveva invocato 20 anni, chiedendo esplicitamente al giudice di togliere a Scala qualsiasi beneficio previsto per i pentiti e questo perché erano ancora in corso verifiche sulla sua attendibilità. Di pochissimo inferiore la pena emessa nei confronti di Luciano Boccia: undici anni ed otto mesi. Dieci anni invece sono stati disposti per Ciro Piccirillo, Sergio Parmiggiano e Massimiliano Artuso (questi ultimi due imputati anche nel processo di primo grado sul ‘voto inquinato’ delle elezioni amministrative della primavera del 2006). Pochi sconti a Giuseppe Scala, figlio di Raffaele Scala: gli sono stati inflitti 8 anni e 4 mesi e senza attenuanti della collaborazione con la giustizia, atteso che da ieri mattina il nipote dei Di Biasi non è più un pentito per volere dell’Antimafia. Sei anni e mezzo è la pena inflitta a Massimiliano Artuso, cinque anni è quella stabilita per Salvatore Scala, l’altro figlio di Raffaele Scala al quale è stato revocato lo status di collaboratore di giustizia. Una sola l’assoluzione disposta dal giudice: Salvatore Di Biase, nipote dei boss, è uscito pulito dal processo, le accuse contro di lui si sono rivelate infondate. Si chiude così il primo processo istruito a carico della cosca dei Faiano (sono in corso altri due filone, uno per omicidio ed un altro per camorra e racket che segue la strada ordinaria). Ci sarà un altro grado di giudizio: la difesa presenterà ricorso in appello non appena verrannodepositate le motivazionialla base della sentenza.
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La famiglia Di Biase dei Quartieri Spagnoli
lunedì 7 luglio 2008
La Storia della famiglia Vollaro di Portici
Solo due guerre di camorra. L'una tra il 1977 ed il 1997, l'altra che ha interessato gli ultimi mesi del 2001 ed i primi del2002. Una guerra intestina la prima, che avrà fatto poco più di venti omicidi. Una faida tra due gruppi opposti (Vollaro e Cozzolino) la seconda. Questa è Portici, una sorta di isola 'felice', perché qui il peso della camorra non è oppressivo come nella vicina Ercolano, contesa da anni tra due cosche. La contesa genera tensioni, e a Portici le tensioni non ci sono. Un solo territorio per un solo clan. Che gestisce ogni tipo di affare. Dalle estorsioni alla droga. Tutto nelle mani di una sola famiglia, i Vollaro, la famiglia fondata da Luigi Vollaro, soprannominato il 'califfo' per le sue doti di latin lover: 27 figli avuti da una decina di relazioni. Luigi Vollaro, originario di San Sebastiano, nasce il 18 dicembre nel 1932. Entra a far parte della Nuova Famiglia del boss, pentito, Carmine Alfieri. Uno dei primi capiclan a schierarsi con i l signore di Piazzolla di Nola nella lotta alla Nuova Camorra Organizzata del professore di Ottaviano Raffaele Cutolo. Ed è all'interno di questo cartello, che i Vollaro stringono le proprie alleanze, con i Birra-Iacomino di Ercolano (alleanza ancora tuttora forte, tanto quanto le ostilità con gli Ascione), con gli Abate detti "dei Cavallari" di San Giorgio a Cremano, gli Anastasio di Sant'Anastasia, i De Luca Bossa di Ponticelli, i Marfella del quartiere Pianura, i Veneruso di Volla e gli Sparandeo di Benevento. Vollaro viene arrestato dopo tre anni di latitanza nel 1982, sospettato dell'omicidio di un suo gregario, il 24enne Giuseppe Mutillo ucciso nel 1980. Omicidio per il quale Luigi Vollaro
incasserà il primo ergastolo, condanna diventata definitiva. A questo si affiancherà nel 2003 la condanna al carcere a vita per l'omicidio di Carlo Lardone, altro gregario dei Vollaro. Nel 1992 Luigi Vollaro viene sottoposto al regime del carcere duro, uno dei primi boss di camorra nei confronti del quale il Dap dispone il 41 bis, regime sempre prorogato, mai revocato(attualmente è detenuto presso la casa circondariale di massima sicurezza di Parma). E' a questo punto che la gestione degli affari illeciti passa ai suoi figli: c'era bisogno di uomini in grado di muoversi sul territorio, di uomini che potessero intervenire in prima persona nel caso in cui si verificassero problemi. E allora ecco che Pietro e Giuseppe, i più grandi tra gli eredi, vengono
investiti del potere, affiancati da un altro fratello Raffaele, che finisce in prigione nel 2001, accusato e condannato per aver intascato tangenti da Carmela Licenziato al fine di consentire a lei, che non era organicamente inserita nel sodalizio, di vendere droga in città. Fuori dagli affari di famiglia è invece Antonio Vollaro (altro figlio del Califfo), ingiustamente detenuto per anni per un omicidio commesso dal fratello pentito Ciro, che, con le sue confessioni, unitamente a quelle dei pentiti Francesco Di Pierno e Francesco Pariota, ha contribuito ad assestare un duro colpo alla famiglia.
incasserà il primo ergastolo, condanna diventata definitiva. A questo si affiancherà nel 2003 la condanna al carcere a vita per l'omicidio di Carlo Lardone, altro gregario dei Vollaro. Nel 1992 Luigi Vollaro viene sottoposto al regime del carcere duro, uno dei primi boss di camorra nei confronti del quale il Dap dispone il 41 bis, regime sempre prorogato, mai revocato(attualmente è detenuto presso la casa circondariale di massima sicurezza di Parma). E' a questo punto che la gestione degli affari illeciti passa ai suoi figli: c'era bisogno di uomini in grado di muoversi sul territorio, di uomini che potessero intervenire in prima persona nel caso in cui si verificassero problemi. E allora ecco che Pietro e Giuseppe, i più grandi tra gli eredi, vengono
investiti del potere, affiancati da un altro fratello Raffaele, che finisce in prigione nel 2001, accusato e condannato per aver intascato tangenti da Carmela Licenziato al fine di consentire a lei, che non era organicamente inserita nel sodalizio, di vendere droga in città. Fuori dagli affari di famiglia è invece Antonio Vollaro (altro figlio del Califfo), ingiustamente detenuto per anni per un omicidio commesso dal fratello pentito Ciro, che, con le sue confessioni, unitamente a quelle dei pentiti Francesco Di Pierno e Francesco Pariota, ha contribuito ad assestare un duro colpo alla famiglia.
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