martedì 28 ottobre 2008

Arrestato il boss dei Mazzarella Paolo Ottaiano: è il re del falso!

Imponevano ai commercianti prodotti contraffatti. È quanto emerso dalle indagini coordinate dalla Procura di Napoli: il clan Mazzarella, con roccaforte nella zona del Mercato, controllava il mercato della merce falsificata. In particolare, il lavoro investigativo eseguito dalla Squadra Mobile ha accertato che la cosca facente capo a Vincenzo Mazzarella, boss attualmente detenuto in carcere, si occupava del commercio di scarpe griffate “Hogan”, ovviamente false. Su provvedimento di fermo, le manette sono scattate ai polsi di tre persone, tra cui il nipote del
capocosca, Paolo Ottaviano, di 35 anni, considerato da inquirenti ed investigatori l’attuale reggente della famiglia malavitosa. La brillante operazione è stata eseguita dai Falchi, che hanno effettuato un blitz nel cuore della zona Mercato sorprendendo 8 persone: metà erano in strada, forse, con compiti di sentinella, mentre gli altri 4 erano impegnati in un “summit” di strategia contabile: stavano, in pratica, definendo le modalità di commercializzazione di prodotti contraffatti da immettere sul cosiddetto mercato “parallelo”, imponendolo, e stabilendo la divisione dei profitti derivanti dalla loro attività. Come si evince da un libro mastro trovato nell’appartamento-ufficio e sottoposto a sequestro. Un documento ritenuto importante dagli “007” della Mobile in quanto sono riportati i numerosi negozi che erano costretti a commercializzare le false “Hogan”. Oltre che per il parente del boss Vincenzo Mazzarella, le manette sono scattate ai polsi di Francesco Rinaldi, cinquantenne, e di Biagio Rapicano Aiello, 27 anni. I due sono stati arrestati in flagranza per il reato di associazione camorristica di stampo mafioso. Gli altri cinque, tra cui un minorenne, sono stati denunciati a piede libero in quanto ritenuti, come gli altri, responsabili del reato di associazione a delinquere di stampo camorristico. Il blitz è scattato intorno alle 13 di martedì, in vico San Matteo al Lavinaio (zona meglio conosciuta come “Lavinaio”). Posto sotto controllo il vicolo, da parte di motociclisti in forza alla Sezione Criminalità Diffusa, agenti bloccavano le sentinelle che si erano sistemate a ciascun angolo del palazzo in cui si stava svolgendo il summit. I partecipanti all’incontro sono stati letteralmente colti di sorpresa, non avendo la possibilità di disfarsi di documenti ritenuti molto importanti per il proseguo delle indagini. Tra questi anche un catalogo, a calori, in cui erano riportate fotografie di diversi modelli di scarpe della nota griffe, ovviamente, contraffatte; book uguale al campionario che l’azienda calzaturiera italiana, facente parte del gruppo Tod’s, di Diego Della Valle, ha in commercio; oltre a denaro in contanti. Trovato anche un block notes. Tutto il materiale ora è al vaglio degli inquirenti. Soprattutto, i dati annotati sui numerosi documenti contabili. Su alcuni di essi, infatti, accanto al modello di scarpa corrisponde il nominativo del commerciante cui erano o sono stati destinati. Le indagini da parte della Squadra Mobile proseguono per stabilire se l’acquisto della merce è stato imposto o quando è stato il frutto di un accordo criminale tra esponenti del clan e commercianti compiacenti. Quello del mercato delle “Hogan” contraffatte viene ritenuto un business alquanto redditizio per la cosca dei Mazzarella, che si aggirerebbe intorno a decine di migliaia di euro, commercio attivo da anni. I Mazzarella, un clan che controlla il mercato del falso, della contraffazione. L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Napoli, appena conclusasi con l’arresto del nipote del boss Vincenzo, e di altri due affiliati, ha confermato quanto da tempo affermavano alcuni collaboratori di giustizia: la cosca della zona Mercato ha monopolizzato il mercato cosiddetto “parallelo”, che punta all’invasione del tessuto commerciale di griffe false. «Alcuni pentiti, sia vicini all’organizzazione criminale dei Mazzarella che a quella dei Misso, più volte avevano sottolineato questo aspetto. L’operazione eseguita in vico San Matteo ha evidenziato che si tratta di un business, alquanto redditizio, difficilmente
da quantificare, che ha trovato i suoi profitti nel settore dell’abbigliamento e della calzatura, in particolare». Una distribuzione del prodotto ai commercianti il più delle volte imposto dal clan, che ha puntato su una strategia diversa da quella a cui la camorra era ricorsa in passato, in altri settori commerciali. Infatti, i clan avevano assunto il controllo della distribuzione di generi alimentari, fungendo da grossisti che fornivano ad esercizi commerciali questo o quell’altro prodotto: latticini, gelateria, carni. Ora, gli affari il clan Mazzarella li fa con le scarpe, con la griffe “Hogan”, ovviamente falsa. Inquirenti ed investigatori, da anni hanno accertato che le organizzazioni camorristiche tendevano a gestire il mercato del falso, elaborando nuove idonee strategie e controllando ogni fase del business: produzione, commercializzazione dei prodotti
«con l’intento di perfezionare la realizzazione dei capi con lo scopo di renderli identici a quelli originali, in maniera da espanderne al massimo la distribuzione», si legge nel comunicato
emesso dalla Squadra Mobile di Napoli. La catena distributiva è assicurata in maniera capillare dal metodo mafioso, ed è rivolta a commercianti compiacenti o anche prestanomi che rappresentano una delle possibili occasioni per il riciclaggio dei proventi provenienti da attività
illegali, tipicamente camorristiche come droga, estorsioni. O nella maggior parte dei casi imposta, con minacce, agli esercenti commerciali, soprattutto ambulanti che lavorano in maniera diffusa nei mercatini rionali, ai quali vengono imposte quantità e prezzi dei prodotti da commerciare.
Questa strategia ha consentito ai Mazzarella, come alle altre organizzazione criminali, di acquisire una larga fetta di mercato sottraendolo alle aziende legali, nel caso della cosca del Mercato, al gruppo Tod’s dell’ìmprenditore delle calzature Diego Della Valle. L’arresto del reggente del clan di Vincenzo Mazzarella, di fatto, ha inferto un duro colpo non solo al gruppo criminale ma anche alle sue casse. Il clan avrebbe fissato un tariffario per la rete della distribuzione delle “Hogan”, da quanto accertato dagli investigatori della Mobile risulterebbe che all’organizzazione criminale ogni scarpa costerebbe tra i 20 ed 30 euro. La vendita, imposta o meno, al commerciante sarebbe stata fissata intorno ai 50-60 euro, quindi il doppio, mentre il costo finale, quello al consumatore sarebbe di 80-90 euro. Non si esclude che il prezzo possa salire ulteriormente se qualche esercente agisse in maniera truffaldina sostenendo che quel paio di scarpe è originale ma di provenienza diversa da quella centrale della “Hogan”. Circostanza che giustificherebbe il prezzo competitivo rispetto quello praticato dai negozi autorizzati dall’azienda produttrice, con
pesanti ripercussioni sul mercato legalizzato. Alla luce dei conteggi fatti, sia alla cosca che al negoziante o all’ambulante, a cui verrebbe, invece, imposto il prezzo di mercato, entrerebbe come guadagno rispettivamente il 100% ed il 50% o il 30%. Cifre che per il gruppo criminale aumentano estendendo il mercato delle scarpe contraffatte. Scarpe contraffatte, le indagini continuano per individuare il luogo dove avverrebbe la produzione dei vari modelli “Hogan”. Per gli “007” della Squadra Mobile le calzature sarebbe realizzare in città o, forse, nell’hinterland napoletano. Infatti, la polizia escluderebbe che ci sarebbe la “partecipazione” da parte della mafia cinese, specialista della contraffazione, che fornirebbe la materia prima ai malviventi napoletani.
Le scarpe sarebbero tutta opera della manovalanza locale. Per questo motivo, la polizia punterebbe alla all’individuazione di fabbriche, di appartamenti, di depositi attrezzati per lavorare la pelle, il cuoio. Al momento non ci sarebbe una pista principale da seguire, ma la
convinzione che ci sarebbero una o più strutture operanti abusivamente nel settore delle calzature si sta facendo strada tra gli investigatori. È possibile anche che considerato l’ingente
quantitativo di merce contraffatta che sbarca a Napoli proveniente dalla Cina la camorra abbia deciso di interessarsi solo del settore calzaturiero. Strategia dettata dalla necessità di evitare “scontri” tra le organizzazioni criminali cittadine e quelle dell’estremo oriente. In pratica, di non pestarsi i piedi a vicenda. La spiegazione sarebbe tutta nel fatto che i falsari napoletani avrebbero abbandonato da tempo il settore dell’abbigliamento, mercato gestito dagli orientali, che pagherebbero alla malavita organizzata cittadina una minima percentuale sui guadagni.

martedì 21 ottobre 2008

Arrestato un altro pezzo grosso del gruppo dei Casalesi di Giuseppe Setola: Emilio Di Caterino, detto "capa grossa".

Si nascondeva a Terni a casa di parenti, forse un cognato, il latitante della camorra Emilio Di Caterino, 34 anni, detto "CAPA GROSSA",ritenuto uno dei luogotenenti di Giuseppe Setola, il boss dei Casalesi 'scissionisti' ricercato per la strage degli immigrati a Castel Volturno. Lo hanno arrestato nel pomeriggio i carabinieri. A suo carico ci sono tre ordinanze di custodia firmate dal gip di Napoli nei mesi scorsi con le accuse di associazione mafiosa e tentativo di estorsione: pur non essendo accusato formalmente di alcun omicidio, secondo gli inquirenti sarebbe coinvolto in diversi agguati messi a segno negli ultimi tempi dal gruppo di Setola. Di Caterino, forse non a caso, si sarebbe rifugiato in Umbria poco dopo la strage di Castel Volturno dove furono uccisi sei immigrati africani. Si era stabilito con la moglie e i tre figli in un appartamento a Rivo, alla periferia di Terni, dove non sono state trovate armi. E' qui che hanno fatto irruzione una quindicina di carabinieri del nucleo investigativo di Castello di Cisterna e di altri reparti della Campania. Il latitante era privo di documenti. Dopo gli ultimi duri colpi assestati alla camorra dalle forze di polizia, l'attenzione degli investigatori si era concentrata soprattutto su due pericolosi ricercati del gruppo degli scissionisti del clan Bidognetti: Setola e Di Caterino, appunto. Latitanti definiti ''molto armati e molto determinati a non farsi catturare''. A ricostruire il percorso criminale di Di Caterino e' stato di recente Oreste Spagnuolo, fino a pochi giorni fa uno degli affiliati al clan e oggi pentito. Ai pm Spagnuolo ha raccontato che ''il mio gruppo ha sempre fatto capo a Bidognetti Francesco'', detto 'Cicciott' e mezzanotte', da tempo detenuto, ''e alle persone che lo rappresentano sul territorio''. ''So che in un periodo immediatamente antecedente alla mia affiliazione'', che risale al 2000, ''il capo era Giuseppe Setola, ma questi fu arrestato pochi giorni prima che io entrassi a far parte del gruppo''. Subito dopo ''il referente del capo recluso'' sarebbe diventato Alessandro Cirillo, che gesti' il gruppo ''almeno fino all'inizio della sua latitanza, collegata al pentimento di Domenico Bidognetti... Due giorni dopo la notizia del suo pentimento Alessandro Cirillo si rese latitante e la gestione del clan passo' a Massimo Alfiero e Emilio Di Caterino'', per poi tornare saldamente nelle mani di Setola, dopo la sua evasione. Ai pm Spagnuolo ha fatto nomi e cognomi non solo degli affiliati veri e propri, ma anche di persone ''a disposizione'' del clan. Il gruppo ''si strinse attorno a Setola, che scelse Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e me. Praticamente eravamo noi quattro a fare tutto ma ovviamente avevamo una rete di persone che agivano per noi, una dozzina di persone; alcune di queste erano affiliate, stipendiati per poco meno di duemila euro al mese, ed altri erano semplicemente a disposizione, traendo profitto ed essendo legati al capo per amicizia e timore''. Tra le persone ''affiliate - racconta ancora il pentito - vi erano Emilio Di Caterino, Massimo Alfiero, tale Luigi Natale detto 'o' marano' di Casal di Principe, Metello Di Bona, Davide Granata, Giuseppe Guerra di San Marcellino, Massimo Amatrudi (per un periodo breve), Carletto Di Raffaele, Giuseppe Gagliardi), Pasquale Musciarella, Antonio Alluce ed altre che conosco di nome''. Tutte ''persone che 'giravano', nel senso che raccoglievano le tangenti per nostro conto e ce le consegnavano.

venerdì 17 ottobre 2008

Si pente il killer dei Casalesi Oreste Spagnuolo arrestato pochi giorni prima.

Uno dei superkiller del gruppo di scissionisti del clan dei Casalesi si è pentito ed ha permesso una maxiretata scattata nella notte tra venerdì e ieri 11 ottobre 2008. Undici i destinatari del decreto di fermo. Quattro di loro sono sfuggiti alla cattura, tra cui anche il capo dell’ala stragista dei Casalesi, Giuseppe Setola, ritenuto il responsabile dell’ondata di attentati che ha insanguinato il casertano negli ultimi sei mesi. In cella sono finite invece sette persone, ritenute a vario titolo componenti e fiancheggiatori del gruppo di fuoco. Ma la vera novità è il nuovo pentito che potrebbe scardinare gli assetti del clan. Si tratta di Oreste Spagnuolo, uno dei tre presunti killer del clan dei Casalesi catturati il 30 settembre scorso dai carabinieri in due villette tra Giugliano e Quarto. È bastata una settimana di carcere duro e la prospettiva di un sicuro ergastolo per far decidere Spagnuolo a “saltare il fosso”. I suoi familiari sono già al sicuro, in località protetta. Ora, grazie alle sue dichiarazioni, la Direzione antimafia di Napoli tenta di fare terra bruciata attorno al superlatitante Giuseppe Setola, e agli altri boss ancora irreperibili (Michele Zagaria e Antonio Iovine prima di tutti). Il decreto di fermo riguarda anche una donna, Antonietta Pellegrino, di 26 anni, con precedenti, residente a Giugliano, appartenente a una famiglia ritenuta legata al clan dei Casalesi e accusata di favoreggiamento per avere coperto la latitanza di alcuni esponenti di spicco dell'organizzazione camorristica. Con l'accusa di favoreggiamento e anche di associazione per delinquere è stato arrestato anche il marito, Nicola Gagliardini, 35 anni, di Lusciano. Arrestati, nell’operazione di ieri, anche Massimo Alfiero, Vincenzo Di Fraia, Pietro Fontana, Nicola Tavoletta e Bernardino Terracciano. Quest’ultimo è noto per aver recitato nel film “Gomorra”, tratto dal bestseller di Roberto Saviano e candidato italiano al Premio Oscar. I capi di imputazione contenuti nel decreto di fermo contro gli undici riguardano l’organizzazione e il compimento della tentata strage di alcuni nigeriani (in cinque rimasero feriti) avvenuto il 18 agosto scorso in un'abitazione di Castelvolturno sede di un'associazione che si occupa della tutela delle prostitute extracomunitarie. Contestata anche l’estorsione ai danni di Raffaele Granata, il titolare del lido balneare “La Fiorente” a Varcaturo, ucciso la scorsa estate per essersi opposto al ricatto del clan. Contestato naturalmente il reato di associazione a delinquere di stampo camorristico ma con l’aggravante della finalità terroristica. Nel corso dell'operazione, a cavallo tra le province di Napoli e Caserta sono state effettuate numerose perquisizioni in abitazioni di pregiudicati, affiliati e fiancheggiatori della cosca. Tre persone trovate in possesso di armi sono state arrestate a Marano e Marigliano (ne riferiamo nella pagina seguente). Prima gli arresti scattati alla fine di settembre, poi il trasferimento al 41bis tra le carceri di Opera e Parma. La prospettiva era di un ergastolo da scontare al carcere duro. Oreste Spagnuolo, arrestato il 30 settembre in un villino a Quarto, con Alessandro Cirillo e Giovanni Letizia, è accusato di far parte della fazione stragista del clan dei casalesi che ha fatto decine di morti negli ultimi sei mesi. La scelta di Spagnuolo è stata rapida: collaborare con la giustizia per ricostruirsi una vita altrove. Il suo pentimento potrebbe portare a scardinare i vertici attuali del clan più temuto d’Italia. E a ricostruire la mappa aggiornata degli organigrammi e dell’impero economico dei Casalesi. E le sue prime dichiarazioni già stanno dando i primi frutti. Del resto Spagnuolo è un affiliato antico, diventato di recente un uomo di primo piano nella ristrutturazione del clan imposta da Giuseppe Setola. Le sue dichiarazioni ai pm della Dda di Napoli cominciano così: «Io sono stato affiliato con il gruppo Bidognetti nel 2000 e fui affiliato da Cirillo Alessandro quando iniziai a fare il giro per le estorsioni presso il litorale domizio; prendevo circa 2 milioni e mezzo di lire al mese».Spagnuolo
aggiunge: «Il mio gruppo ha sempre fatto capo a Bidognetti Francesco ed alle persone che lo rappresentano sul territorio. All'epoca della mia affiliazione, nel 2000, il referente del capo recluso era Cirillo Alessandro. So che in un periodo immediatamente antecedente alla mia affiliazione il capo era Setola Giuseppe ma questi fu arrestato proprio pochi giorni prima che io entrassi a far parte stabile del gruppo». Lo scorso aprile Setola, posto agli arresti domiciliari con un clamoroso provvedimento basato su una perizia medica quantomeno sospetta che diagnosticava una presunta grave malattia agli occhi, riesce ad evadere. Racconta Spagnuolo: «Il clan, prima dell'evasione del Setola, si trovava in un periodo stagnante, e tutto cambiò con l'avvento di Peppe. Convocò Letizia Giovanni e Cirillo Alessandro, presente anche Alfiero Massimo. Quel giorno Setola prese il comando e dichiarò la sua intenzione di fare “a modo suo”; capimmo subito cosa intendeva. Creò un gruppo ristretto di persone ed assunse un atteggiamento estremamente autoritario. La strategia di Setola fu evidente e questi decise di incutere il terrore sul territorio e di uccidere i familiari dei pentiti». Setola si dimostra un leader con modi dittatoriali e violenti, racconta sempre Spagnuolo: «Non dava alcune spiegazione delle sue determinazioni perché nessuno poteva avere alcun ruolo nelle sue decisioni; assunse un ruolo di massima autorità. Non vi era alcuna possibilità di discutere delle sue scelte e tutte le persone
facenti parte del gruppo aderirono necessariamente alla sua volontà. Il clan si strinse attorno al Setola e furono da questi scelti Cirillo Alessandro, Letizia Giovanni ed io: la scelta su di me cadde perché anche io ero latitante, così come Letizia e Cirillo, e trascorrevo la latitanza insieme al Letizia. Praticamente eravamo noi quattro a fare tutto ma ovviamente avevamo una rete di persone che agivano per noi, una dozzina di persone; alcuni di questi erano affiliati – stipendiati per poco meno di 2mila euro al mese – ed altri erano semplicemente “a disposizione”, traendo profitto ed essendo legati al capo per amicizia e timore». Ma sono gli affari il vero fulcro delle
dichiarazioni di Spagnuolo: «La cassa era gestita direttamente dal Setola ed ammontava mediamente a 90mila euro al mese, subendo le variazioni legate alle contingenze». Anche i Bidognetti traevano profitti ed eran d’accordo con Setola: «Lui decise dunque di attuare questa
strategia di terrore sul territorio e così si agì secondo i suoi ordini; non so dire quanto questa strategia fosse necessaria ma certamente il capo disse che era stata autorizzata dal capo detenuto, Bidognetti Francesco; ricordo in particolare che in un’occasione, pochi mesi fa, quando
erano stati già consumati molti omicidi, il figlio di “Cicciotto”, Bidognetti Gianluca, ci disse – tornando da un colloquio - che non aveva mai visto il padre così contento come ora. Peppe Setola si occupava personalmente di far recapitare una quota destinata alla famiglia Bidognetti – ossia
al padre Cicciotto ed ai figli Aniello e Raffaele, tutti detenuti. A “cicciotto” venivano recapitati 5mila euro mensili mentre ai figli Aniello e Raffaele venivano dati 3mila e 500 euro ciascuno, corrisposti tramite le loro rispettive mogli».

sabato 11 ottobre 2008

La storia di Antonio Bardellino.

Quello del boss Antonio Bardellino è il più clamoroso caso di “lupara bianca” della camorra campana. Ufficialmente, il padrino di San Cipriano d’Aversa è morto nell’ultima settimana di maggio del 1988, ammazzato da Mario Iovine, suo ex uomo di fiducia, e sepolto in qualche sperduto angolo della costa brasiliana. Il suo corpo, però, non è mai stato ritrovato, malgrado gli enormi sforzi degli investigatori. E c’è stato addirittura chi – come il pentito di Cosa nostra, Tommaso Buscetta, e l’ex capo del Sismi, il generale Cesare Pucci – ha messo in dubbio la ricostruzione stessa dell’omicidio, fino a immaginare una diversa conclusione del “giallo” legato a Bardellino. Il futuro capo del clan dei Casalesi riceve il primo mandato di cattura per associazione di stampo mafioso nel 1978, ma riesce a darsi alla macchia. Viene arrestato soltanto il 2 novembre del 1983, dopo cinque anni di latitanza, quando – ormai – la magistratura lo ha già indagato per traffico internazionale di stupefacenti, estorsione e strage. Gli agenti della Criminalpol e della polizia spagnola lo bloccano in un bar, a Barcellona, dove era giunto da pochi giorni, proveniente dalla Francia. Era braccato, il padrino, nei 134 Paesi aderenti all’organizzazione internazionale di polizia criminale e soltanto una “soffiata” da parte di un poliziotto corrotto gli aveva permesso di rimanere in libertà qualche altro giorno ancora e di fuggire da Marsiglia. Il giorno dopo la cattura, tra l’incredulità dei magistrati e degli uomini
delle forze dell’ordine italiani, viene rilasciato dal tribunale dietro il pagamento di una cauzione da 50 milioni di lire. Ed è a questo punto che la storia inizia ad assumere i contorni del mistero. Subito dopo la scarcerazione, infatti, il padrino si rifugia in Brasile, dove incontra Tommaso Buscetta e Tano Badalementi, i due vecchi capi-mafia palermitani costretti alla latitanza dall’offensiva militare dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Successivamente, si sposta verso Santo Domingo, dove – con tutta probabilità – incontra un camorrista di Caserta
che lo informa del tradimento ordito dai suoi ex “colonnelli”: Mario Iovine, Enzo De Falco, Francesco “Sandokan” Schiavone e Francesco Bidognetti detto “Cicciotto ’e mezanotte”. Il 20 maggio del 1988, Bardellino parte di nuovo per il Brasile, credendo – erroneamente – di essere finito nel mirino dell’Interpol. Il 24 maggio, il boss chiama al telefono la sua convivente, Rita, conosciuta in un negozio di Fuorigrotta, da cui ha avuto tre figli: la rassicura e le dice che proverà di nuovo a contattarla due giorni dopo, il 26 maggio. Quella nuova telefonata, però, non arriverà mai. Antonio Bardellino scompare nel nulla, inghiottito in un buco nero a migliaia di chilometri di distanza dalla sua terra d’origine. Ciò che accade in quei giorni, sono i collaboratori di giustizia a raccontarlo Basile: «Antonio Bardellino fu ucciso con tre mazzolate sulla testa, il cadavere venne seppellito in una buca scavata nella spiaggia di Bujos, in Brasile, e l’assassino, che agì da solo, fu il boss – un tempo suo amico – Mario Iovine. C’erano forti contrasti tra Mario Iovine e Bardellino,
poi ci fu una telefonata “chiarificatrice” con la quale il boss di San Cipriano d’Aversa invitava Iovine in Brasile. Pur temendo di cadere in trappola, Iovine si recò in Brasile, facendosi accompagnare in taxi fino alla villa messagli a disposizione da Bardellino, a Bujos. All’esterno della
villetta, Iovine vide l’auto di Bardellino, una Oldsmobile di colore verde che ben conosceva. Ebbe, allora, la certezza che Bardellino voleva tendergli una trappola. Si fece accompagnare dal tassista a una distanza di tre chilometri e, sul litorale, scavò una fossa. Poi, tornò nei pressi della villa, entrò per prendere la propria pistola calibro 38 ma non la trovò. Pensò che l’arma gli fosse stata rubata durante l’assenza dallo stesso Bardellino. Si armò allora di una mazza ed attese il rientro del rivale. Iovine tramortì Bardellino con un forte colpo alla nuca e lo finì con altre due mazzolate,
sfracellandogli il cranio. Poi riprese la propria pistola, che trovò addosso al cadavere di Bardellino, avvolse il corpo in un tappeto, prese i documenti e lo depose nel baule dell’auto di Bardellino. Andò a seppellire il cadavere nella buca. Intanto, a Casal di Principe gli uomini di Bardellino erano in attesa della telefonata con la quale il boss avrebbe dovuto comunicare la morte di Iovine. Arrivò, invece, a Francesco Schiavone e a Vincenzo De Falco la telefonata di Iovine che disse di aver ammazzato il rivale e che bisognava far fuori tutti i parenti e gli amici di Bardellino.
Rappresaglia che partì immediatamente e che culminò nell’eliminazione di Paride Salzillo, “figlioccio” di Bardellino». Le ultime tappe del mistero, prima della sentenza d’appello “Spartacus
1”, che ha messo la parola fine alla vicenda – almeno dal punto di vista giudiziario – riguardano l’audizione di Tommaso Buscetta davanti alla Commissione antimafia, il 17 novembre 1992: rispondendo a una domanda del presidente, Luciano Violante, il pentito affermò: «Non mi risulta,
ma non credo che Antonio Bardellino sia morto». Qualche mese dopo, sempre davanti alla commissione Antimafia, il generale Cesare Pucci, l’allora direttore del servizio segreto militare, il Sismi, sollecitato da una domanda del deputato socialista Carlo D’Amato, disse: «Credo che
occorra quanto prima trovare Bardellino, possibilmente vivo. Francamente, al momento non ho elementi per fornire una risposta esauriente sul suo decesso: mi riservo di farlo in futuro, qualora venga in possesso di notizie più precise».

Dodici anni per il boss del Vomero Maurizio Brandi.

Dodici anni per colui che viene considerato il capo della mala del Vomero-Arenella, dieci per il suo braccio destro. Sono stati duri i giudici della quinta sezione del Tribunale di Napoli, che hanno emesso ieri 6 ottobre 08 la sentenza di primo grado nel processo per estorsione a Maurizio Brandi e Paolo Miccio. Ora per gli imputati, entrambi in carcere, la speranza è affidata all’Appello e alla Cassazione. Nel frattempo devono essere ritenuti innocenti fino all’eventuale condanna definitiva. «Tu mi conosci, tutti al Vomero mi conoscono. Sono Maurizio Brandi e mi devi dare 50mila euro se vuoi stare tranquillo e continuare in pace il tuo lavoro». Con queste poche frasi secondo l’accusa il 43enne pregiudicato di via Alfredo Rocco all’Arenella, ras dello storico clan del Vomero diretto un tempo dal boss Giovanni Alfano prima della spaccatura con Luigi Cimmino e Antonio Caiazzo, avrebbe seminato il terrore in un negozio di abbigliamento ultraventennale nel cuore del quartiere. E, come se non bastasse, successivamente sarebbe passato Paolo Miccio, oggi 37enne, a rincarare la dose: «La somma si intende all’anno, non una sola volta: ti conviene pagare se non vuoi problemi con Maurizio». Per il commerciante era troppo e decise di chiedere aiuto ai carabinieri, che cominciarono un’indagine coordinata dalla procura antimafia. Il 17 novembre 2006 ci fu la prima conclusione, con il decreto di fermo eseguito dai militari del Vomero. Per Maurizio Brandi e Paolo Miccio (che abita in via Domenico Fontana) l’accusa fu di tentata estorsione aggravata dall’articolo 7. La richiesta di “pizzo”, nella ricostruzione dell’accusa, non era una tantum ma presupponeva una periodicità. Con l’ipotesi, rimasta però soltanto tale, che i presunti affiliati alla mala collinare intendessero utilizzare parte dei soldi per spese legali. Maurizio Brandi e Paolo Miccio, allora entrambi sottoposti alla misura di sicurezza della libertà vigilata, furono bloccati all’alba dai militari nelle rispettive abitazioni. Stavano tranquillamente dormendo e il risveglio non fu ovviamente tra i più piacevoli. Ma facendo buon viso a cattivo gioco, seguirono gli uomini dell’Arma prima alla caserma di piazza Quattro Giornate e poi al carcere di Poggioreale. L’accusa si è retta essenzialmente sulla denuncia della vittima, non essendo stati arrestati in flagranza di reato i due indagati. Circostanza che rese quanto mai delicate l’udienza di convalida davanti al gip ma soprattutto il pronunciamento dei giudici del Tribunale del Riesame. Brandi e Miccio non profferirono alcuna frase, se non quelle dovute alla particolare circostanza dell’arresto, con i carabinieri. L’operazione degli investigatori dell’Arma e della procura antimafia dimostrò come sia sempre molto viva l’attenzione nei confronti del fenomeno estorsivo nelle zone della Napolibene, le più colpite dal racket. L’ultimo pentito in ordine di tempo a parlare di Maurizio Brandi è stato Ciro Castaldo, personaggio dei Quartieri Spagnoli meglio noto come “Ciro-Ciro”, a proposito dei rapporti tra il clan Mariano e la malavita del Vomero-Arenella. «Il gruppo di cui facevo parte (i Mariano, ndr) - ha sostenuto Castaldo - aveva rapporti con altri clan e in particolare con quelli del Vomero-Arenella. Io stesso ho conosciuto Luigi Cimmino e Antonio Caiazzo». Non si è limitato a parlare della malavita dei Quartieri Spagnoli l’ex ras emergente di Montesanto, nipote acquisito di Marco Mariano e collaboratore di giustizia dal 1999 in località protetta. Nel corso di diversi interrogatori ha delineato la mappa delle alleanze tra le cosche, soffermandosi il 27 novembre 2004 sui rapporti con la malavita collinare, dilaniata all’epoca dei fatti raccontati da una guerra intestina. «Ricordo che un mio ragazzo, Ciro Sgambati - ha sostenuto Ciro Castaldo - ebbe una discussione con Maurizio Brandi perché gli doveva dei soldi non ricordo per quale motivo e io fui investito della questione. La cosa però, si risolse velocemente anche perché i rapporti tra il mio gruppo e quelli del Vomero erano buoni. Io ho conosciuto, in particolare, sia Cimmino che Brandi attraverso Salvatore Raimondi, che faceva parte del mio gruppo ma abitava in salita Arenella, vicino a Cimmino, ed era cresciuto con i suoi ragazzi». Raimondi fu ucciso per caso nel corso del raid costato la vita a Silvia Ruotolo

lunedì 6 ottobre 2008

Arrestata anche la moglie di Sandokan, Giuseppina Nappa, nell'ambito dell'operazione Spartacus 3

Stipendi da mille a 4mila euro al mese - erogati dall’organizzazione criminale casalese e frutto di estorsioni, gestione di videopoker illegali, traffico di armi, riciclaggio, illecita concorrenza, venivano puntualmente versati alla famiglia Schiavone nella persona di Giuseppina Nappa (moglie del boss Sandokan) tra gli arrestati di spicco dell’inchiesta della Dda denominata “Spartacus 3”. Solo la famiglia Schiavone, che rappresenterebbe per numero di affiliati un terzo, circa, degli esponenti della criminalità organizzata del casertano, avrebbe pagato stipendi per 5 milioni di euro l’anno. In particolare la cosca un tempo capeggiata da Francesco Schiavone e ora affidata ai nipoti e alla moglie, Giuseppina Nappa, è composta, stando agli appunti contabili, da 146 persone divise in 11 gruppi. Per bilanciare questi costi e ritagliarsi una fetta di guadagno
consistente per le famiglie dei capi, i Casalesi hanno messo in piedi una rete capillare di estorsioni. Anche questa, in parte ricostruita grazie alla documentazione ritrovata. Nei libri mastri compaiono le tangenti pagate da numerose società al clan, quali ad esempio quelle delle ditte impegnate nei lavori di ammodernamento della ferrovia Alifana, un sistema di trasporto regionale, che vanno dal 3 al 5 per cento dell’importo complessivo dei lavori. E ieri, al momento dell’arresto, Giuseppina Nappa, davanti a fotografi e cineoperatori ha ripreso il piglio di donna di comando e ha detto, alquanto seccata: «Non avete salvato l’Italia». La donna è stata arrestata nell’abitazione dei familiari del marito, dove vive con i sette figli, 5 maschi e due femmine. L’ordinanza emessa dal Tribunale di Napoli su richiesta della Dda è stata notificata alla donna alla presenza del difensore. Ai cineoperatori ed ai fotografi, al momento del trasferimento dalla Questura di Caserta al carcere è apparsa stanca equasi rassegnata, ma poi ha ritrovato vigore entrando nell’auto della polizia. Alla donna sono state sequestrate due auto ed una Vespa nuova di zecca. Giuseppina Nappa, che deve rispondere di ricettazione per avere incassato somme di denaro che l’organizzazione assicura ai familiari degli affiliati reclusi, fu già arrestata negli anni scorsi per truffa aggravata e favoreggiamento del clan dei casalesi, nell’ambito di un’indagine che portò in carcere 85 persone, tutte affiliate alla cosca e che riguardava, per la moglie di Sandokan, la gestione delle aziende agricole e zootecniche Selvalunga ed Abbate; aziende confiscate alcuni mesi prima del suo arresto e di quello di altre donne legate all’organizzazione camorristica.

Il profilo di Vincenzo Schiavone detto "copertone, nipote di Sandokan, arrestato nell'ambito di Spartacus 3.

Un killer spietato e senza alcuna pietà tanto che ne parlano di lui tutti i collaboratori di giustizia del clan dei Casalesi. Vincenzo Schiavone, è il figlio di Luigi Schiavone e nipote diretto di Sandokan considerato il vero reggente di tutta la cosca da lui guidata e dei suoi otto sottogruppi
e secondo la Dda ha tutte le carte in regola per diventare un boss del calibro dello zio, ma come
tutti ha il diritto di essere considerato innocente fino a prova contraria. Vincenzo Schiavone è conosciuto nella camorra come “’o copertone” per la sua scelta di firmare gli omicidi cui partecipa dando fuoco al cadavere della vittima, accanto al quale ammassa copertoni d'auto; un'abitudine che però gli costa ustioni al volto in un'occasione. I pentiti lo identificano non solo come killer, ma anche come il contabile del clan, colui che tiene il registro degli stipendi mensili. Massimo Pannullo il 13 aprile 2004 dice ai magistrati: «’O copertone si occupa di tutto nell'organizzazione
e specialmente di estorsioni»; e poi il 16 maggio: «La contabilità e la ripartizione degli stipendi
spettanti ai vari affiliati del gruppo era tenuta dai vertici del clan, Sebastiano e Nicola Panaro
(anche questi nipoti di Sandokan, ndr.), e Vincenzo Schiavone». Analoghe dichiarazioni le fanno
Cesare Tavoletta e Luigi Diana, che in un verbale dell'11 maggio 2006 precisa che «è collegato direttamente alla famiglia Schiavone con compiti di killer e gestione della contabilità del clan. Lo stesso percepisce uno stipendio di 1500 euro mensili». Vincenzo Schiavone di Luigi inoltre è imputato di alcune estorsioni aggravate dal metodo mafioso. In particolare in danno di una persona non identificata legata per motivi di parentela a Benedetto Di Caterino e a Salvatore Di Caterino. I pm ritenevano in particolare sussistenti una pluralità di convergenti elementi documentali idonei a dimostrare che Vincenzo Schiavone di Luigi nella qualità di materiale esecutore del reato e Panaro Nicola quale mandante ed organizzatore, costringevano un soggetto non identificato a versare loro varie somme di denaro a titolo estorsivo.

Arrestati i tre scissionisti dell'ala bidognettiana dei Casalesi: sono i tre presunti strateghi del terrore: Spagnuolo, CIrillo e Letizia (nella foto.

«Bravi, ci siete riusciti». Sorriso sulle labbra, come se non sapessero che ad attenderli c’è con ogni probabilità il carcere duro ed una serie di ergastoli, i tre superkiller dei Casalesi, a capo di una fronda di scissionisti che aveva dato il via alla strategia del terrore, si sono complimentati con i carabinieri che li hanno stanati ieri mattina, in due villette poco distanti l’una dall’altra. Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e Oreste Spagnuolo si nascondevano sul litorale, la stessa area dove hanno compiuto, secondo l’accusa, la strage di San Gennaro e vari altri omicidi e ferimenti negli ultimi mesi. L’area è sulla linea di confine tra i Comuni di Quarto e Giugliano. I tre killer erano armati fino ai denti, ma non hanno fatto in tempo a usare pistole e mitra all'arrivo dei Carabinieri. A carico di Spagnuolo e Cirillo i pm della Direzione distrettuale antimafia avevano emesso poco dopo la strage di Castelvolturno (un italiano e 6 africani uccisi) un provvedimento di fermo per strage. Appena 4 giorni dopo gli agenti della Squadra Mobile avevano arrestato Ferdinando Cesarano, presunto evaso agli arresti domiciliari per andare a commettere la strage. Il fermo è stato poi confermato dal gip. Per Letizia, invece, manca la prova di un coinvolgimento diretto, ma era comunque ricercato da tempo per associazione camorristica. Nel covo i carabinieri hanno sequestrato tra l'altro 2 kalashnikov e due pistole calibro 9x21, fucili a pompa e numerose munizioni. Potrebbero essere le armi usate per la strage di San Gennaro, lo stabiliranno le perizie balistiche. All'interno dei villini, tra il materiale sequestrato, anche pettorine con la scritta “Carabinieri”, paline del ministero della Difesa, passamontagna e parrucche. Non c'erano altre persone all'interno delle abitazioni e, secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, è probabile che i tre stessero lì da poco tempo. Sequestrate dai carabinieri anche moto e macchine che erano nella disponibilità dei tre latitanti. In particolare, due motociclette sono simili a quelle adoperate in omicidi recenti, compreso il delitto di Raffaele Granata a luglio scorso, titolare di uno stabilimento balneare che non voleva pagare il “pizzo”. Nelle due ville sono stati trovati anche quotidiani locali che raccontavano della strage di Castelvolturno e della morte dei due poliziotti morti durante un inseguimento a Villa Literno. Ma sono state trovate anche cibi di prima scelta come le aragoste, e poi computer portatili e televisori al plasma. Le indagini continuano per risalire ad eventuali coperture e fiancheggiatori dei tre latitanti. L'obiettivo del gruppo di fuoco sgominato ieri era chiaro: fermare tutti coloro che opponeva resistenza, tutti coloro che avevano intenzione di collaborare con le forze dell'ordine. È lunga la lista degli omicidi riconducibili all’ala scissionista di ex bidognettiani: il padre del pentito Domenico Bidognetti, l'imprenditore Domenico Noviello, uccisi entrambi lo scorso maggio, Michele Orsi, anche lui imprenditore, ucciso a giugno scorso, Raffaele Granata, titolare di uno stabilimento balneare del litorale domizio. Hanno anche preso parte agli agguati contro un gruppo di albanesi, nigeriani e in ultimo la strage degli immigrati a Castelvolturno e all’omicidio del titolare di una sala giochi Antonio Celiento. Per cena aragoste, spumante messo al fresco in frigo, mentre in dispensa chili di carne, salsicce, una vera e propria cornucopia per una latitanza che nelle loro intenzioni sarebbe stata molto lunga. Invece i carabinieri del Comando provinciale di Caserta hanno fatto terra bruciata attorno a Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia e Alessandro Cirillo, i tre presunti killer del gruppo di fuoco dei Casalesi, e all'alba di ieri sono entrati in azione in quelle due villette di via Cupa Reginelle e via Cupa del Sole, zona di confine tra Quarto e Giugliano. Una zona residenziale, con decine di villette a schiera unifamiliari e tra quelle case ultimate da poco, erano nascosti Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia e Alessandro Cirillo. Spagnuolo abitava da solo, in una villetta alla fine di via Cupa Reginelle. All'interno del covo i carabinieri hanno trovato un vero e proprio arsenale, ma anche chili di carne, decine di bottiglie di the al limone e, addirittura, scatole di semolino per bambini e biscotti Plasmon. Secondo i militari, quella roba è la dimostrazione che durante la latitanza, Spagnuolo avrebbe potuto ospitare la moglie ed il figlioletto. Quattro scalini e poi si accede all'angolo cottura, mentre sul retro affacciano le due camere da letto, trasformate da Spagnuolo in una sorta di deposito dove conservare cibo, armi, munizioni, pettorine false dei carabinieri, parrucche. A poche centinaia di metri, svoltata la strada, l'altra villetta immersa nel verde, divisa su due piani e con accesso al terrazzo attraverso una scala. È lì dentro che i carabinieri hanno fermato ed arrestato Giovanni Letizia e Alessandro Cirillo. Al piano terra i carabinieri hanno rinvenuto i famigerati kalashnikov che sarebbero stati usati nella strage di Castelvolturno. Fucili, proiettili e su un tavolino decine di dvd masterizzati di film hard e cd di musica napoletana. Un arredamento scarno, ma curato dal punto di vista tecnologico, con due televisori al plasma da 30 pollici, mentre al piano di sopra i due latitanti avevano camere da letto separate. I tre latitanti sono stati colti di sorpresa ed all'arrivo dei carabinieri hanno tentato di disfarsi delle pistole, gettandole in giardino, ma i militari hanno iscoperto tutto e li hanno arrestati.

Scacco ai Casalesi: 107 arresti, nel computer del boss tutti i capi suddivisi per zona.

Il giorno dopo la celebrazione dei funerali dei due agenti morti per combattere la camorra casertana lo Stato fa sentire la sua presenza. E lo fa infliggendo uno dei colpi più duri che siano mai stati inferti al clan dei Casalesi. Capi, gregari, professionisti insospettabili: ci sono quasi tutti tra i 107 destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Capuano su richiesta della Dda di Napoli. Non a caso l’operazione è stata denominata “Spartacus 3”. Per eseguire gli arresti ci sono voluti 500 agenti. Degli arrestati 27 erano liberi, 76 detenuti, 4 sono latitanti. Contemporaneamente agli arresti 600 finanzieri dei reparti del comando provinciale di Napoli e dello Scico hanno eseguito sequestri di beni pari a 100 milioni di euro. Come accertato dagli investigatori, le redini del clan dei Casalesi continuano ad essere ancora in mano a Francesco Schiavone, alias “Sandokan”, alla moglie Giuseppina Nappa, ai nipoti Nicola Panaro, latitante, Sebastiano Panaro, Vincenzo Schiavone, alias “petillo”, ed al boss Mario Caterino, attualmente latitante, condannato all’ergastolo con la recente sentenza “Spartacus”. Otto i gruppi che fanno parte del clan dei Casalesi. Il gruppo principale è quello di Casale, retto dal capo indiscusso Francesco Schiavone. Il secondo è capeggiato da Giuseppe Russo,detto il “padrino”. Il terzo, con competenza tra Santa Maria Capua Vetere e Capua, è attualmente gestito da Vincenzo Conte, alias “nas ’e cane”. Il quarto gruppo è retto da Salvatore Cantiello, alias “Carusiello”. Il quinto gruppo è quello cosiddetto dei sanciprianesi con competenza esclusiva nel comune di San Cipriano d’Aversa, diretto dai boss Giuseppe Caterino, “peppinotto”, e Antonio Iovine, “ninno”. Il sesto gruppo, diretto dal boss Giuseppe Papa, ha il suo nucleo centrale in Sparanise e Pignataro Maggiore. Il settimo, capeggiato da Raffaele Della Volpe, ha per competenza territoriale Aversa. L’ultimo gruppo è retto da Giorgio Marano competente per Trentola Ducenta e Teverola. Su tutti domina la famiglia Schiavone che controlla la quasi totalità delle attività illecite e gestisce la cassa comune con cui pagare gli stipendi ai vari affiliati (circa 300mila euro al mese) dai proventi delle attività illecite. Oltre agli arresti, ieri mattina sono stati sequestrati beni per 100 milioni di euro. L’attività svolta dagli specialisti del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza e dello Scico ha consentito di denunciare 192 prestanome dei Casalesi, di circa 120 società e ditte individuali. Sequestrati, inoltre, oltre 300 tra beni mobili ed immobili (terreni, fabbricati, autoveicoli, cavalli). Sigilli anche ad un negozio di articoli sportivi intestato a Gianluca Bidognetti (figlio di Cicciotto ’e Mezzanotte), e ad un negozio di dischi intestato a Carmine Schiavone (figlio di Francesco alias Sandokan). Le estorsioni ai cantieri servivano per pagare gli stipendi agli affiliati. In un anno il clan Schiavone ha “versato” cinque milioni di euro ai suoi affiliati. È quanto
emerge dal computer del capoclan Vincenzo, sequestrato nel corso della maxi-operazione di ieri.
Le indagini hanno preso spunto proprio dal ritrovamento durante una perquisizione eseguita presso l’abitazione di Schiavone Vincenzo, alias Copertone, di diverse liste riportanti, divisi per zona, i nominativi degli affiliati e rispettivi capi zona e lo “stipendio” percepito da ciascuno di essi. Le estorsioni ottenute ai danni del cantiere della ferrovia Alifana, ad esempio, sono state gestite in società con il clan Mallardo, che opera nella zona a nord di Napoli, per il tratto di lavori compreso tra Giugliano (un comune del napoletano) e Aversa (nel casertano), mentre per la parte da Aversa a Piedimonte Matese la riscossione è stata curata solo dalla famiglia Schiavone che ha incassato oltre 100 milioni di euro. Tra le attività estorsive (numerosissime) poste in essere dagli affiliati al clan, di particolare rilievo è quella effettuata ai danni dei fratelli Orsi,
impegnati fino all’anno 2004 nella raccolta dei rifiuti solidi urbani nell’area Ce4 (Castel Voltuno, Mondragone, Grazzanise, S.Maria la Fossa), costretti a versare la somma di 125 mila euro. L’imprenditore Orsi è stato poi ucciso davanti ad un bar di Casal di Principe. I proventi delle tangenti venivano anche ripartite tra i clan a seconda delle zone geografiche d’influenza. Tra i beni sequestrati nel corso dell’operazione della notte scorsa, per un valore totale di oltre 100 milioni di euro, figurano 43 società, 134 immobili, 13 cavalli e oltre 30 auto di lusso. Per portare a termine le 31 perquisizioni, i sequestri, e il controllo di 165 indagati a vario titolo nell’inchiesta (prestanome, imprenditori, commercianti) la Guardia di Finanza ha utilizzato 540 uomini e 63 investigatori dello Scico.

Ecco come i boss dei Casalesi sottoposti al carcere duro riescono a parlare con l'esterno!

Dopo l’applicazione, scattata lo scorso agosto per i capi storici dei Casalesi, ovvero Francesco «Sandokan» Schiavone e Francesco Bidognetti detto «Cicciotto ‘e Mezanotte», le restrizioni più pesanti del «41 bis» colpiscono altri affiliati alla cosca criminale casertana. Se per Schiavone e Bidognetti era stata una lettera di condoglianze «cifrata» (contenente l’ordine di eseguire una sentenza di morte) a chiudere ancora di più i rubinetti della già limitata libertà del 41bis, per gli altri affiliati i motivi riguardano altri metodi di «comunicazione». Che sono confluiti in una sorta di monitoraggio eseguito nelle carceri dalla Direzione nazionale antimafia e dai reparti speciali della polizia penitenziaria: si va dai messaggi sui fazzolettini per il naso, di cui è stato protagonista il boss pentito a metà Augusto La Torre, ai colloqui tra detenuti e familiari in carcere, a volte anche pentiti (come accaduto per i fratelli Luigi e Alfonso Diana) e ad altri sistemi rilevati dagli 007 dell’antimafia che sono stati usati, in alcuni casi, anche da esponenti della cosca dei Casalesi. Nella fattispecie, colloqui tra detenuti di diverse organizzazioni nel momento di socialità; passaggi accanto o sotto le finestre di reclusi con cui si vogliono scambiare notizie; consegna, da parte di un detenuto ad altro detenuto, di bigliettini scritti, facendoli passare attraverso cordicelle da una finestra di celle poste ai piani superiori rispetto a quella dell’obiettivo; biglietti nascosti dietro i termosifoni delle docce; colloqui diretti fra detenuti quando si trovano insieme in videoconferenza; messaggi a voce ai detenuti che poi vengono trasferiti ad altri penitenziari e addirittura finti procuratori legali che in aula si avvicinano alle gabbie dei detenuti; occultamento di messaggi scritti in panini morsicati e lasciati poi nella gabbia in aula; messaggi tramite agenti corrotti; simulazioni di gravi stati di salute per poter raggiungere i centri clinici dove sono più facili i contatti con familiari o medici di fiducia; fazzolettini nascosti nelle fodere degli abiti; messaggi convenzionali attraverso lettere che passano la censura del carcere. Sono alcune decine, allo stato i boss del crimine organizzato casertano ristretti da anni o, alternativamente, nei penitenziari di massima sicurezza al regime di 41 bis. Era al regime di 41 bis ma oggi è ricercato per omicidio - in quanto ritenuto del gruppo di fuoco che ha seminato terrore sul litorale domizio con le uccisioni di Domenico Noviello e Raffaele Granata (il primo titolare di una autoscuola, il secondo di uno stabilimento balneare) – anche Giuseppe Setola, presunto mandante delle estorsioni al Vassallo Park Hotel di Castelvolturno. A gennaio la Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere aveva mandato Setola agli arresti domiciliari per poter curare la «grave patologia retinica» che — stando a una perizia medica — l’avrebbe reso poco meno che cieco.

domenica 5 ottobre 2008

Grumo Nevano:Arrestato il braccio destro del boss Vincenzo Aversano:è il 40enne Gennaro Crasti.

Non avendo ottemperato più volte al provvedimento degli arresti domiciliari, per Gennaro Crasti, 40enne residente nel parco Ice Snei in corso Garibaldi a Grumo Nevano si sono spalancate le porte dell’istituto penitenziario di Poggioreale. Crasti è stato raggiunto da un ordine di carcerazione emesso dalla Procura di Napoli a seguito di varie segnalazioni fatte dai militari dell’Arma della locale stazione circa le sue inottemperanze. Così l’altro pomeriggio è stato prelevato dalla propria abitazione dai carabinieri in forza alla stazione di Grumo Nevano diretti, dopodichè dagli stessi è stato accompagnato al penitenziario partenopeo. Un personaggio molto noto negli ambienti della mala grumese, in quanto è riconosciuto all’interno del famigerato parco Ice Snei come referente di Vincenzo Aversano, fratello di Giovanni, capostipite dell’omonimo clan denominato anche ”zig - zag” attualmente detenuto perché resosi responsabile di omicidio, ed ex collaboratore di giustizia. Il 40enne coordinava e teneva sotto controllo l’attività di spaccio all’interno del rione, maggiore risorsa economica e fonte di sostentamento per molte famiglie. Un boss di quartiere potrebbe essere quasi definito, braccio destro di Vincenzo Aversano da poco ritornato in libertà. Con l’arresto di Crasti probabilmente per un po’ di tempo potrebbe venire meno quell’equilibrio e ”sicurezza” che fino ad ora hanno regnato all’interno del gruppo criminale.
In sole ventiquattro ore questo è il secondo arresto effettuato all’interno del parco Ice Snei ai danni di affiliati del clan Aversano. Giovedì di buon mattino i militari dell’Arma hanno tratto in arresto Domenico Salemme di 75 anni meglio conosciuto col come ”Don Mimì”. L’uomo anch’egli residente nel parco Ice Snei, ora parco Vittoria, fu raggiunto da un ordine di carcerazione emesso dalla Procura generale di Napoli, a seguito di un cumulo di pene a suo carico tutte per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Nonostante l’età avanzata Don Mimì si dava ancora da fare sul territorio impegnandosi nello spaccio di stupefacenti. Un curriculum criminale che lo vede avvicinarsi al mondo della mala pressappoco nel 1978 periodo in cui gli furono attribuiti reati contro il patrimonio. Dopodichè a seguito dell’operazione Terra Bruciata fu inquadrato nell’organizzazione criminale dei ”zig- zag” e per questo condannato per l’articolo 416 bis, cioè per associazione di tipo mafioso. Giovedì l’arresto con la condanna di due anni e undici mesi di detenzione, in più per Don Mimì sono state previste pene accessorie, come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e la sospensione della potestà giudiziaria. Pena quest’ultima che avrà la stessa durata dell’ordine di carcerazione. Una vera e propria stangata inflitta ad una delle più note famiglie malavitose presenti sul territorio.

L'arresto e relativa scarcerazione lampo e il profilo di Lelluccio capa Janca

Sono rimasti in carcere per ore perché il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli ha pensato bene di non convalidare il fermo. È questa la clamorosa svolta dopo l’arresto di Raffaele Amato detto “Lello ’o piccirillo” e di Francesco Ferro, uno 18 e l’altro 26 anni. I due,hanno ottenuto il solo obbligo di firma nononostate le pesantissime accuse che il pm ha contestato ai due. La resistenza a pubblico ufficiale era infatti aggravata dall’articolo sette perché i due erano ritenuti vicini al clan Amato-Pagano, in particolare “Lelluccio” è il nipote diretto di Raffaele Amato, considerato da investigatori ed inquirenti il boss incontrastato dell’area Nord di Napoli dopo la sanguinosa scissione con il clan Di Lauro. L’avvocato ha dimostrato, presentando decine di precedenti, che per Amato e Ferro, c’è stata una disparità di trattamento rispetto agli altri fermi per resistenza a pubblico ufficiale che vengono invece giudicati per direttissima. «È stato così per i No-global, così per le “teste calde” del tifo, così anche per gli arresti dopo gli scontri dove morì l’ispettore Raciti a Catania. Chi è arrestato per resistenza viene processato per direttissima. Ma non è così per uno che porta un cognome pesante. E poi le accuse dei pentiti vanno dimostrate». Già i pentiti, perché il pubblico ministero ha depositato in aula i verbali di Antonio Prestieri che confermavano la personalità del 18enne, verbali depositati per confermare l’aggravante dell’articolo 7. Ma non è bastato e così i due sono stati liberati. Eppure secondo l’accusa erano i fautori di una rivolta organizzata via telefono e di una violenta colluttazione. Bilancio questo dell’ultima giornata di guerriglia metropolitana quella che purtroppo si è due giorni tra Sant’Antimo e Melito. I carabinieri della locale tenenza coadiuvati dai militari della tenenza di Sant'Antimo e dell’aliquota radiomobile di Giugliano in Campania hanno alla fine sono riusciti a portare a termine il loro compito con coraggio e determinazione. L’arresto è avvenuto in flagranza per lesioni, resistenza e violenza a pubblico ufficiale e per danneggiamento e minaccia commessa avvalendosi delle condizioni di associazione per delinquere di tipo mafioso Francesco Ferro, 23 anni, residente a Melito in via De Nicola, già noto alle forze dell’ordine ed Raffaele Amato, 18 anni, detto "Lelluccio ’o piccirillo" oppure "Capa Ianca", residente a Napoli sul vico Parrocchia, già noto alle forze dell’ordine e ritenuto, nonostante la giovanissima età. I due, insieme ad una terza persona che è in via d’identificazione transitavano sul corso Europa a Sant’Antimo a bordo di Fiat Bravo di proprietà di una società di autonoleggio e non si sono fermati all’alta, da lì l’inseguimento e l’arresto a Melito nel rione 219, dopo una rivolta dei residenti che volevano proteggere i due. Le sue accuse sono circostanziate e racchiuse in alcuni verbali omissati che il pubblico ministero della Dda, Luigi Alberto Cannavale, ha depositato
nel corso dell’udienza di convalida del fermo per Raffaele Amato, 18 anni, e Francesco Ferro, 27 anni. «Ha 18 anni ma è già un boss a tutti gli effetti, per lo zio ha commesso molti reati ed è una figura importante per la gestione della cosca». Antonio Prestieri, quasi coetaneo di Lelluccio “capa ianca”, è stato sentito alcuni mesi fa dai pubblici ministeri della Dda di Napoli in merito a
tutto quanto conosceva sulla mala di Secondigliano. A puntare il dito contro i trafficanti arrestati ieri, limitatamente a quelli che ha riconosciuto nei filmati, è stato il pentito Antonio Prestieri.
Quelle sue dichiarazioni potrebbero essere usate anche in altri procedimenti ma per ora il giovane ha l'assoluto diritto di essere considerato innocente fino a prova contraria. Nipote del ras Maurizio Prestieri, anch'egli passato precedentemente dalla parte dello Stato, il giovane si presentò da uomo libero agli uffici della procura antimafia e da allora sta collaborando con gli inquirenti. In questo caso il suo contributo è servito per identificare personaggi meno noti agli stessi esperti carabinieri del Nucleo investigativo di Castello di Cisterna. Anche lo zio Maurizio sta riempiendo molte pagine di verbali, ma è soprattutto sul clan Di Lauro che sta parlando. Come sei mesi fa a proposito di un episodio molto particolare. «A Paolo Di Lauro era andato male
un affare in America e aveva incaricato due suoi uomini di recuperare i quattro miliardi di lire che riteneva gli dovevano essere restituiti da alcuni italo-americani. Ma il tentativo di mediazione andò male e la vendetta si concretizzò con l'incendio doloso di un ristorante nella disponibilità di questi ultimi».

Le accuse dei Prestieri a Lo Russo

Ci sono in giro troppi collaboratori di giustizia e le accuse sono circostanziate e precise. Per questo boss e affiliati al clan Lo Russo hanno deciso di scegliere di essere processati con il rito abbreviato. Un autogol o una scelta processuale sensata? Lo dirà solo il giudice per le indagini preliminari che alla fine di ottobre sarà chiamato a giudicare i ras di Miano. Alla sbarra ci sono Salvatore Lo Russo, Antonio Lo Russo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’ambulanza, Raffaele Perfetto, Luigi Pompeo, l’unico a non aver scelto il rito abbreviato, Massimo Tipaldi, anch’egli condannato per il duplice omicidio Manzo-D’Amico e Giovanni Penniniello, finito sotto accusa nel blitz che coinvolse il consigliere regionale Roberto Conte. Nel corso dell’udienza preliminare ha depositato nuove accuse contro i presunti padrini di Miano che hanno comunque
il diritto di essere considerati innocenti fino a prova contraria. Contro di loro le ricostruzioni fatte da Vittorio La Sala ex affiliato al clan Torino del rione Sanità, Maurizio e Antonio Prestieri, collaboratori di giustizia di Secondigliano prima affiliati al clan Di Lauro e poi agli scissionisti. Contro gli indagati c’erano già le ricostruzioni fatte dai collaboratori di giustizia del clan Misso: Giuseppe “’o chiatto”, suo zio Giuseppe “senior”, Emiliano Zapata e Michelangelo Mazza. Alla lista probabilmente si aggiungeranno anche le accuse di Salvatore Torino. Nessuno di loro sarà ascoltato in videoconferenza perché i ras hanno scelto di essere processati con il rito abbreviato (tranne Pompeo che sarà processato con il rito ordinario). Salvatore Lo Russo era da pochi giorni tornato dalla Costa Azzurra in Francia quando fu arrestato. L’inchiesta fu coordinata sin dal primo momento dai pm antimafia. Il colpo da maestri lo hanno compiuto piazzando le microspie sullo yacht nella disponibilità di Salvatore Lo Russo; alle intercettazioni ambientali si sono aggiunte poi le dichiarazioni dell’ex ras della Sanità Giuseppe Misso “’o chiatto”. Un elemento in più che ha convinto il gip, valutando evidentemente anche in maniera diversa gli indizi già racchiusi nel decreto di fermo del 3 maggio 2007 (che fu annullato dal gip due giorni dopo) e i contributi degli altri pentiti, a emettere un’ordinanza di custodia cautelare. I due Lo Russo e Raffaele Perfetto, dopo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono stati tradotti al regime del carcere duro, quello destinato ai personaggi di spessore che hanno ancora la possibilità di gestire il clan anche da dietro le sbarre.

Salvatore Torino era pronto a fare la guerra al clan dei Capitoni.

A parlare è Salvatore Torino (nella foto), alias “’o cassusaro”. L’ex boss del rione Sanità in un verbale del 24 aprile scorso ha raccontato agli inquirenti della Dda i suoi passati criminali. Le sue dichiarazioni sono state inserite nel decreto di fermo che ha portato all’arresto di Mariano Mirante e di Gennaro Galeota. Racconta della sua affiliazione al clan Lo Russo e dalla sua dipartita alla Sanità. Ecco cosa spiega nello specifico. «Il mio ingresso nel clan Lo Russo si deve ai contatti che avevo con Lo Russo Domenico che abitava vicino a me a Marianella. Nel clan Lo Russo sono rimasto fino alla scissione avvenuta nel 1999 e mi sono occupato, quale affiliato, di tutte le attività criminali che si svolgevano, soprattutto omicidi e droga. Lei mi chiede quali sono i motivi che hanno determinato la scissione dal clan Lo Russo e io rispondo che il giorno prima dell’arresto in Spagna di Giuseppe Lo Russo che era latitante lui ci aveva indicato quali referenti nel clan e persone che avrebbero dovuto curare i suoi interessi e proseguire nella sua linea criminale. Quando parlo di noi mi riferisco a me, Ettore Sabatino, Spina Francesco, a Peppe “’o biondo”. Tuttavia Antonio Lo Russo, figlio di Giuseppe, voleva fare lui il capo e per questo stavano nascendo contrasti, soprattutto legati alla spartizione dei proventi illeciti. Arrivò anche a schiaffeggiare Francuccio, figlio di Ettore Sabatino, cosa che provocò la reazione del padre disposto a questo punto ad imbracciare le armi. Prima della vera e propria scissione con il nostro allontanamento da Secondigliano vi fu un po’ di freddezza con i Lo Russo, preparatorio della scissione».

Le rivelazioni di Gennaro Panzuto: Cesarano voleva affidarmi Posillipo.

«Giovanni Cesarano mi disse che si era trovato senza ricchezza e mi fece capire che per questo i rapporti con Vincenzo Licciardi si erano deteriorati ». È stato Gennaro Panzuto, nell’interrogatorio del 17 marzo scorso, a chiarire per primo agli inquirenti il motivo della rottura all’interno del clan della Masseria Cardone: da un lato i Licciardi, dall’altro i Cesarano-Sacco-Bocchetti-Feldi. Una spaccatura che ha provocato agguati a ripetizione e che, nonostante sia in corso una tregua, secondo la maggior parte degli investigatori esiste ancora. Clamorosi furono i due omicidi consecutivi nell’estate 2007, con l’eliminazione del capo di una piazza di spaccio a San Pietro a Paterno e del suo vice pochi giorni dopo. «Quando uscì dal carcere Giovanni Cesarano - ha sostenuto “Genny Panzuto a marzo scorso - mi sono incontrato con lui due volte, la seconda volta prima di Pasqua 2007. Entrambi gli incontri avvennero a casa di Totore ‘o pazzo, cognato di Giovanni Cesarano, a Pianura: durante il primo incontro entrambi ci ragguagliammo delle reciproche situazioni, io gli raccontai tutto il percorso che stavo facendo e le mie strategie. Lui era contento della mia autonomizzazione dai Licciardi e mi diede dei consigli. Io poi andai in Inghilterra in quanto latitante e le ambasciate tra noi avvenivano tramite Totore ’o pazzo. Cesarano. Aveva in animo di farmi estendere a Posillipo dove non c’era più alcun referente dal momento che erano stati tutti arrestati, mentre io pur stando in Inghilterra stavo costituendo a Napoli un buon gruppo di affiliati. Non ritenevo però ancora maturi i tempi e fu questa l’ambasciata che feci arrivare a Giovanni. Quando poi sono tornato in Italia, sempre da latitante per curare alcune faccende mi sono incontrato nuovamente con Cesarano. In questo secondo incontro lui mi fece capire che i rapporti con Vincenzo Licciardi stavano proprio degenerando dal momento che Licciardi non era tanto preoccupato di estendere le proprie attività criminali sul territorio in modo che ne avrebbero potuto beneficiare gli altri affiliati ma anzi di consolidare e curare solo le ricchezze già acquisite da lui e da altri pochi suoi luogotenenti, fra i quali non c’era Giovanni Cesarano il quale pur avendo fatto tanto per il clan si ritrovava senza ricchezza. Compresi, anche se Cesarano non parlò espressamente di scissione, che i rapporti tra i due si erano definitivamente guastati. E che questa rottura era estesa anche ad altri ex fedeli al Licciardi, anche se non facemmo nomi e cognomi e si parlò in termini generali facendo riferimento a quegli affiliati che tanto avevano fatto per il clan dal punto di vista criminale, realizzando omicidi e rischiando il carcere ma che non venivano valorizzati perché si interessavano meno alle attività produttive di ricchezza, che genericamente potremmo indicare come “commerciali”. Quando io chiesi: «Ma in finale chi siamo?» lui mi rispose che rimanevamo quelli di sempre, e compresi che si riferiva innanzitutto a Gennaro Sacco, che ha sempre considerato come un fratello, e agli affiliati ai Bocchetti. Su mia domanda se c’erano dei ragazzi più giovani ai quali mi sarei potuto affiancare egli mi rispose facendo riferimento ai fratelli Feldi dei quali io conoscevo un fratello per essere stato in carcere con lui nella stessa sezione a Secondigliano (S2). Io da parte mia gli prospettai la possibilità futura di coinvolgere Nando Schlemer che io consideravo molto valido e che si sapeva organizzare».

Il profilo criminale e le rivelazioni di Gennaro Panzuto sulla spartizione della Città

Gennaro Panzuto, ricercato dal 2005 e arrestato a Londra alla fine dell’anno successivo, in passato è stato indagato per associazione per delinquere di tipo mafioso, violazione legge armi, rapina aggravata, lesioni, tentato omicidio. Nel corso di un’intervista al nostro giornale si definì “uno scugnizzo”: allora non era latitante e ancora non si conoscevano i suoi molteplici rapporti con gli ambienti malavitosi del centro di Napoli. In particolare gli investigatori lo ritenevano soprattutto legato ai Torino della Sanità e proprio con il boss del clan “scissionista” dai Misso “Genny” fu registrato dalle microspie nel corso di una conversazione illuminante su alleanze e inimicizie di camorra. Secondo gli inquirenti Gennaro Panzuto avrebbe rivestito un ruolo e
funzioni apicali nell'ambito del clan di appartenenza gestendo anche i rapporti con i rappresentanti di altre potenti famiglie camorristiche napoletane, tra le quali le storiche Lo Russo, Di Biasi, Mazzarella e Sarno. Infatti, nel dicembre 2005 partecipò a un summit insieme con Salvatore Torino, il figlio di quest’ultimo Nicola, Gennaro Mazzarella, Ferdinando Schellemer (gli ultimi due per il gruppo dei Mazzarella che agisce tra Forcella, la Duchesca e la Maddalena). A parere di alcuni investigatori, Gennaro Panzuto era addirittura approdato al clan Torino con l’obiettivo di estendere a tappeto il fenomeno delle richieste estorsive, compiute con raid intimidatori. Imputato per associazione camorristica insieme al ghota dei Torino e si è autoaccusato di diversi omicidi. Un accordo totale per spartirsi la città. Ecco quanto decisero, secondo il collaboratore di giustizia Gennaro Panzuto, nel corso di un summit di camorra. Lo ha raccontato ai magistrati della Dda di Napoli qualche mese dopo il suo pentimento. «Non appena scarcerato, a febbraio 2004, trascorsi un periodo agli arresti domiciliari a casa mia e lì ricevetti una serie di visite, sia da parte dei Licciardi sia successivamente da parte di altri con i quali stavo istaurando nuovi rapporti, ad esempio Antonio Mazza, Tonino Economico, Antonio dell’Aquila detto tre dita, Umberto Ponziglione e da un certo Achille delle case nuove, per il fronte dell’alleanza Misso - Mazzarella. Quanto ai Licciardi io subito ricevetti una somma di denaro (non ricordo se 10 o 20 mila Euro) dal cugino di Gerry per conto di Gerry e Enzuccio Licciardi e a mia richiesta dopo poco ma a più riprese ricevetti anche un giubbino e due pistole, una 357 e una 7.65». Ci fu poi un incontro da Panzuto. «Sempre a casa mia con Tonino ’o biondo, Antonio Muscerino e Giannino faccetta che mi spiegarono quanto era successo mentre io ero detenuto, ossia che i Misso - Mazzarella avevano stretto un accordo con i Contini - Licciardi per la spartizione dei rispettivi territori di influenza, in modo che cessassero gli scontri e che questo accordo era stato stretto da rappresentanti di entrambi gli schieramenti ed in particolare da Giuseppe Ammendola che era il portavoce di tutta l’alleanza di Secondigliano e che si era incontrato con i Misso proprio per stipulare l’accordo. La conseguenza della spartizione era che l’alleanza di Secondigliano rimaneva nei suoi territori, quindi oltre che a Secondigliano anche nel Vasto, nel Buvero, Posillipo, Bagnoli mentre la Sanità e Forcella, rimaneva tutta dell’alleanza Misso - Mazzarella così che i gruppi prima vicini all’alleanza dovevano trovare nuova collocazione e infatti l’avevano trovata i Vastarella che si erano spostati a Secondigliano con i Licciardi e a Giugliano con i Mallardo. Anche Fuorigrotta rimaneva dei Mazzarella con Zaza e neppure veniva modificata la situazione dei Quartieri Spagnoli.

Le rivelazioni di Gennaro Panzuto:volevo riprendermi il rione Torretta uccidendo Alvino Frizziero.

«Fu io a sparare ad Alvino Frizziero per ucciderlo, ma lui se la cavò. Volevo riprendermi subito la Torretta e non attesi che facesse effetto la strategia decisa con i rappresentanti dei Misso, dei Licciardi e dei Contini». Il 22 aprile 2008 l’ex ras Gennaro Panzuto, passato dalla parte dello Stato a febbraio scorso, raccontò ai pm antimafia i retroscena del clamoroso agguato al rivale Alvino Frizziero, componente della famiglia della Torretta e anch’egli giovane emergente. «Gli accordi prevedevano che in assenza mia e di mio zio Rosario rimanessero i Frizziero e un gruppo di nostri ex affiliati che si erano avvicinati ai Frizziero data la nostra assenza; pur tuttavia quando noi fossimo usciti dal carcere ci saremmo di nuovo messi nella nostra zona e sarebbe stato compito dei Mazzarella tirarsi i Frizziero a Fuorigrotta con Zaza. Questo processo di “liberazione della Torretta” doveva essere indolore nel senso che io non dovevo compiere nessuna azione di fuoco contro i Frizziero. Era proprio questo che non potevo accettare sia per aver subito attacchi dai Frizziero sia perché non avevo sufficienti garanzie che quanto pattuito si sarebbe realizzato senza che io subissi conseguenze negative o attacchi anche alla mia persona. Che pertanto io ero assolutamente deciso a riprendermi tutta la mia zona attaccando i Frizziero e tutto ciò lo spiegai da subito ai portavoce dei Licciardi”. “Genny” Panzuto dunque non aspettò che maturassero i tempi. “Infatti organizzai l’agguato a Frizziero Alvino che avevo già programmato in carcere. Proprio questo Alvino Frizziero insieme a Carmine Cirella vennero a casa mia dopo la mia scarcerazione per rappresentarmi che erano loro a comandare ed io mi mostrai disinteressato fintamente a rimettermi in gioco nella zona. Ovviamente tramavo alle loro spalle e li volevo eliminare entrambi anche se poi concentrai l’obiettivo solo su Alvino Frizziero perché mi arrivò una lettera da mio zio Rosario che voleva salvaguardare Carmine Cirella perché nel frattempo si era chiarito con lo zio Giovanni Cirella che era coimputato in un processo con lui. Nel programmare questo agguato ho curato di non avere poi ritorsioni ottenendo l’appoggio dei Misso, in particolare di Nicola Sequino che parlava anche a nome di Totore Savarese, anche se io ho parlato solo con Nicola Sequino. Gli spiegai che mentre Carmine Cirella era effettivamente a loro legato, Alvino Frizziero diceva pubblicamente di far riferimento esclusivamente a Zaza e quindi ai Mozzarella. Già gli avevo fatto arrivare lo stesso messaggio, meno incisivo, tramite i miei cugini che sono di Materdei (Giovanni e Antonio Piccirillo detto passerotto), poi Nicola Sequino si fece accompagnare a casa mia da tale Peruzzo. Dopo questo agguato ebbi un altro incontro con Tonino ‘o biondo e Giannino faccetta i quali pensavano che io a quel punto mi sarei fermato ma io dissi loro che continuavo per la mia strada”. Panzuto continuò ad attuare una politica di buoni rapporti con i Mazzarella e con i Misso. “Innanzitutto venne da me Umberto Ponsiglione per dirmi che Alvino Frizziero se fosse uscito dall’ospedale sarebbe andato a Fuorigrotta da Totore Zaza (e così fu, quando Alvino Frizziero uscì dall’ospedale se ne andò insieme alla madre), che Totore Zaza era cugino di Mazzarella Vincenzo e che apparteneva a loro. Al che io risposi che ci eravamo chiariti e che Totore Zaza doveva rimanersene a Fuorigrotta senza più ingerenze o interessi economici alla Torretta che sarebbero entrati nella mia sfera di influenza, e così fu»

Marco Di Lauro:reggente del clan è stato inserito tra i latitanti più pericolosi d'Italia.

È inserito nell’elenco dei superlatitanti ed è l’unico ad essere rimasto in libertà, sfuggito a tutti i blitz che lo hanno inseguito. Marco Di Lauro (nella foto) mantiene le redini del clan e tesse alleanze che potranno servire alla cosca quando usciranno i suoi fratelli e quando lui non potrà più gestire gli affari. Gli inquirenti e gli investigatori adesso gli danno la caccia ed hanno mobilitato i migliori “007“, gli stessi che nel giro di pochi mesi hanno arresti Vincenzo Licciardi, Eduardo Contini e Patrizio Bosti i tre capi incontrastati dell’Alleanza di Secondigliano che controllavano gli affari milionari della supercosca. Secondo le ultime informative Marco Di Lauro non dovrebbe essere nascosto lontano di casa. Così come non lo erano i fratelli e il padre. Paolo Di Lauro fu infatti arrestato nel suo quartiere, non lontano dal rione dei Fiori dove per anni ha gestito incontrastato gli affari della cosca. Non era lontano neanche Cosimo. Era in alcune palazzine del Terzo Mondo dove fu ammanettato nel gennaio del 2005. Fu intercettato grazie agli impulsi del suo telefono cellulare che raramente restava accesso per più di qualche minuto. Vincenzo fu arresto a Casalnuovo nel 2007. Si nascondeva con la famiglia a poiché decine di chilometri dalla sua Secondigliano. Nunzio invece era in una palazzina in provincia di Castelvolturno. Quando i carabinieri entrarono per perquisirlo aveva il figlio neonato tra le braccia che piangeva a singhiozzi. Ciro e Salvatore furono arrestati rispettivamente nei blitz del 2004 e del 2005 e sono gli unici a non essere reclusi al 41bis.

I Di Lauro sono ancora vivi: Patto tra loro, i Gionta e l'ndrangheta!

I Di Lauro sono tutt’altro che morti. Il clan dell’area nord che per mesi e mesi è salito alla ribalta della cronaca per i morti che ha mietuto nel corso della faida di camorra tra Secondigliano e Scampia sta tentando di riorganizzarsi. E lo avrebbe fatto con solide alleanza con clan non solo della Campania ma addirittura extraregionali. Altri affari, non solo la droga, probabilmente interessano i fedelissimi della cosca di Ciruzzo “’o milionario”. Secondo le ultime indagini della Direzione distrettuale antimafia pare che si sia stretto un patto con i Gionta di Torre Annunziata che a loro volta garantirebbero accesso ai Di Lauro tra i boss della ’ndrangheta calabrese e della mafia siciliana. Parrebbe questo un problema in più per il clan Amato-Pagano, ma la possibilità economica della cosca guidata dagli scissionisti è enorme e a sei zeri. Questo vuol dire che nulla può al momento disturbare i ras. Anche perché tutti i boss della cosca nemica sono in carcere. Paolo Di Lauro sciacciato dai 30 anni di carcere inflitti dalla quarta sezione penale del Tribunale di Napoli poi confermati in appello. Inoltre ha un altro processo per associazione camorristica. Poi c’è Nunzio che in primo grado per associazione camorristica è stato condannato a 20 anni. A settembre partirà il processo d’appello. Stessa sorte per Ciro e Marco che hanno incassato 14 anni di reclusione in primo grado e aspettano il processo d’appello. Storia a parte per Cosimo che è stato condannato per camorra a 15 anni ma ha in corso un processo per omicidio aggravato. Secondo la Procura e i pentiti è il mandante dell’omicidio della povera Gelsomina Verde. C’è ancora Salvatore, che fu arrestato quando era ancora minorenne ma già capace, secondo la Procura antimafia, di gestire i traffici di droga e una “piazza” di spaccia. È stato condannato dal Tribunale dei Minori di Napoli, con tutte le attenuanti del caso, a 10 anni di carcere. Infine c’è Vincenzo, l’unico dei fratelli che potrebbe presto lasciare il carcere. L’uomo, arrestato dopo un periodo di latitanza, dopo una scarcerazione choc provocata dal mancato invio di un fax al carcere di Torino dove era detenuto, ha incassato solo 8 anni di carcere e non ha altri processi pendenti. Ma chi realmente ha il potere nelle sue mani, chi realmente sta gestendo la cosca e gli affari milionari del padre e dei fratelli, è Marco. Il giovane è inserito nell’elenco dei trenta superlatitanti più ricercati d’Italia. Per lui è stato anche emesso un Mandato di cattura europeo che in caso di arresto all’estero potrebbe accelerare il procedimento di estradizione. Ma come consuetudine dei Di Lauro, gli investigatori credono che Marco si nasconda a Napoli, al massimo in provincia, per meglio gestire gli affari. Da qui la nuova ipotesi investigativa della Dda che i Di Lauro si siano riorganizzati con solide e vincenti cosche. Lo dimostrerebbero gli ultimi omicidi di Scampia e Secondigliano. Gli Amato-Pagano puntano a sotrarre tutti gli approvvigionamenti della cosca anche la “piazza” del “Terzo mondo”, storica roccaforte di “Ciruzzo ’o milionario” che durante la faida diventò anche il quartier generale del clan. L’omicidio del 20enne Ciro Maisto lo dimostra: il clan Di Lauro esiste ancora.

Dalle rivelazioni del pentito Giuseppe Misso "o chiatto" i Misso erano da sempre contro la cosca dei "capitoni"!

«Ho avuto rapporti diretti con il clan Lo Russo sin dal 1998, allorquando incontrai Giuseppe Lo Russo. Successe, infatti, che ci fu un attentato contro l’Alleanza di Secondigliano in quanto ci fu un agguato nella zona di Sangiovanniello e precisamente nei pressi di via Briganti, zona del clan Contini, facente capo ad Eduardo Contini “’o romano”». Comincia così il racconto di Giuseppe Misso detto “’o chiatto” sui rapporti a volte tesi a volte di pace che aveva con la zona di Secondigliano. «Poiché in zona era sta vista una persona di statura grossa, quelli di Secondigliano pensarono, immediatamente, che io avessi avuto un ruolo in quella vicenda - continua il pentito del rione Sanità - Ricordo che quel giorno mi trovavo a piazza Vergini e ricevetti una telefona da mio padre che, preoccupato per la sparatoria che c’era stata, mi disse di tornare a casa. Io dell’agguato non sapevo nulla. Anzi, qualche giorno prima, c’era stata anche una riunione a casa di Mazzarella al rione Luzzatti al primo piano. Si discuteva dell’opportunità o meno di attaccare Secondigliano ed io ero perplesso, perché ritenevo che, in quel momento, noi Misso non avremmo potuto contrastare quei clan né logisticamente, né economicamente. D’altra parte mio zio Peppe era ancora detenuto. In quella riunione non si decise nulla anzi, si continuò a parlare. In quell’agguato morì una persona e ne rimasero feriti due ma so che i veri destinatari di quell’agguato erano Salvatore Botta ed Egidio Annunziata», ha concluso il collaboratore di giustizia della cosca del centro. «Incontrai Salvatore Lo Russo, ’o Capitone, nel 1999 ed è stato lui il vero boss del clan»: parola questa di Giuseppe Misso detto “’o chiatto”. Di seguito il suo racconto che ha lasciato ai pm della Dda di Napoli nel corso dei sui sei mesi “di prova”. «L’incontro nacque dall’esigenze avvertiva dalle famiglie di Secondigliano di proporre a noi Misso una tregua- Siamo infatti negli anni della guerra Mazzarella-Alleanza di Secondigliano, prima e Misso-Alleanza di Secondigliano, poi. Era già tornato in libertà Giuseppe Missi quando ci fu proposto questo incontro, questa volta da Armento Michele. Mi zio Giuseppe non voleva che io incontrassi Lo Russo Salvatore perché di lui non si fidava e quindi incaricò me». Poi continua nel racconto e dell’incontro avuto con i boss di Miano. «Quando Lo Russo Salvatore vide che all’incontro mi presentai io, non volle parlare più, perché voleva incontrare direttamente mio zio Giuseppe. Mio zio però voleva evitarlo perché non aveva nessun intenzione di fare la pace con loro e in particolare con il clan Licciardi. Con me all’incontro c’era Michelangelo Mazza. Mi resi conto che Lo Russo Salvatore quando ci vide si allarmò. Ricordo che quasi tremava e credo che temesse che noi fossimo armati e fossimo andati lì per ammazzarlo. Proprio perché si tranquillizzasse incaricai Michelangelo di andare subito da nostro zio perché venisse di persona all’incontro. Doveva convincerlo proprio spiegandogli quanto fosse pericoloso il fatto che Lo Russo Salvatore potesse pensare che noi fossimo armati».