giovedì 31 luglio 2008

Spari intimidatori nei quartieri per il controllo della droga

Prima una sparatoria in vico Madonnelle agli Spagnoli sui Quartieri, poi in via Nuova Pizzofalcone al Pallonetto Santa-Lucia. Un botta e risposta secondo gli investigatori, andato avanti nei giorni scorsi con colpi di pistola esplosi in aria per lanciare messaggi intimidatori collegabili a vecchie ruggini tra i clan Ricci (i “Fraulella” alleati dei Sarno di Ponticelli) ed Elia. L’ipotesi più accreditata dalla polizia è che da un omicidio avvenuto ad aprile dell’anno scorso, quello di Giuseppe Todisco, i contrasti si siano estesi ai confini di “competenza” per la gestione degli affari illeciti: droga, essenzialmente. Entrambe le sparatorie sono avvenute di notte. Nel corso della prima, sui Quartieri Spagnoli, gli autori del raid potrebbero avere utilizzato una pistola a tamburo in quanto non sono stati trovati bossoli; per la seconda invece, i segni erano ben visibili e la “scientifica” della questura ha compiuto sul posto una serie di rilievi. Gli attacchi intimidatori avrebbero origine addirittura dal delitto del 17 aprile 2007: allora, in vico Conte di Mola, a pochi passi da via Toledo, fu assassinato Todisco. Era in sella ad uno scooter guidato da un amico, che riuscì a mettersi in salvo. Indossava anche il casco e non immaginava di essere finito nel mirino dei killer. Così, appena sceso dal sellino, fu crivellato di pallottole: quattro, di grosso calibro. Due andarono a segno al "bersaglio grosso", alla schiena, e il terzo a una gamba prima del colpo di grazia alla nuca. Complessivamente il sicario esplose cinque delle sei pallottole calibro 38 special che aveva a disposizione nel revolver. Un complice, quello che guidava lo scooter, non sparò limitandosi a controllare che tutto filasse liscio. Poi per il commando fu facile dileguarsi nel dedalo di vicoli dei Quartieri Spagnoli. Sotto il piombo dei killer cadde Giuseppe Todisco, 35enne, meglio noto come "’o ciurillo", napoletano del Pallonetto di Santa Lucia, ritenuto affiliato al gruppo di malavita degli Elia. L'uomo era ritenuto uno "specialista" della rapine di Rolex, soprattutto in trasferta, ma aveva anche precedenti di polizia di droga. Sul luogo dell'agguato mortale, poco dopo le 17, arrivarono gli uomini delle Volanti dell'Upg, del commissariato Montecalvario e più tardi gli uomini della sezione Omicidi della Squadra Mobile.

martedì 29 luglio 2008

Il boss della sanità Salvatore Torino era pronto alla guerra

A parlare è Salvatore Torino (nella foto), alias “’o cassusaro”. L’ex boss del rione Sanità in un verbale del 24 aprile scorso ha raccontato agli inquirenti della Dda i suoi passati criminali. Le sue dichiarazioni sono state inserite nel decreto di fermo che ha portato all’arresto di Mariano Mirante e di Gennaro Galeota. Racconta della sua affiliazione al clan Lo Russo e dalla sua dipartita alla Sanità. Ecco così spiega nello specifico. «Il mio ingresso nel clan Lo Russo si deve ai contatti che avevo con Lo Russo Domenico che abitava vicino a me a Marianella. Nel clan Lo Russo sono rimasto fino alla scissione avvenuta nel 1999 e mi sono occupato, quale affiliato, di tutte le attività criminali che si svolgevano, soprattutto omicidi e droga. Lei mi chiede quali sono i motivi che hanno determinato la scissione dal clan Lo Russo e io rispondo che il giorno prima dell’arresto in Spagna di Giuseppe Lo Russo che era latitante lui ci aveva indicato quali referenti nel clan e persone che avrebbero dovuto curare i suoi interessi e proseguire nella sua linea criminale. Quando parlo di noi mi riferisco a me, Ettore Sabatino, Spina Francesco, a Peppe “’o biondo”. Tuttavia Antonio Lo Russo, figlio di Giuseppe, voleva fare lui il capo e per questo stavano nascendo contrasti, soprattutto legati alla spartizione dei proventi illeciti. Arrivò anche a schiaffeggiare Francuccio, figlio di Ettore Sabatino, cosa che provocò la reazione del padre disposto a questo punto ad imbracciare le armi. Prima della vera e propria scissione con il nostro allontanamento da Secondigliano vi fu un po’ di freddezza con i Lo Russo, preparatorio della scissione».

Le rivelazioni di Giuseppe Misso 'o nasone, per anni boss incontrastato del rione Sanità


«Ho dovuto ingoiare altri rospi e addirittura ho dovuto colloquiare con persone che avevano partecipato all’omicidio di mia moglie ovvero Peppe Ammendola. O quando poi ho accettato di intavolare una discussione con Eduardo Contini per il tramite di Salvatore Savarese e Ciro De Marino,che andarono a parlare con lui dopo aver lasciato i mezzi. L’ho fatto perché per me era conveniente creare un clima apparente di tregua. Una volta scarcerato, dopo che era già venuto Salvatore Lo Russo, si presentò da me anche Ciro “’o scellone” con il nipote Michele, figlio di Vincenzo Mazzarella, per dire che conveniva anche a me fare la pace seguendo il loro esempio, poiché l’avevano fatta nonostante fosse morto il padre per mano di Secondigliano». Il 12 marzo scorso il boss pentito Giuseppe Misso “’o nasone” (all’anagrafe Giuseppe Missi) raccontò ai pm antimafia Amato, Narducci e Sargenti le sue peripezie verbali e comportamentali per giungere allo scopo che si era prefissato: vendicare la morte della moglie, Assunta Sarno. Le sue dichiarazioni sono accusatorie nei confronti di molte persone, le quali naturalmente devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova contraria. Una precisazione importante, che facciamo sempre in casi del genere. «Uno dei rospi che ho dovuto ingoiare è stata la presenza di Pasquale Cappuccio nel rione Sanità. La vicenda è andata avanti per lungo tempo poiché il mio obiettivo era quello di ammazzarlo solo dopo averlo torturato e avergli fatto confessare che lui era stato un infiltrato dell’Alleanza di Secondigliano e in particolare di Eduardo Contini. Io già lo sapevo, ma anche Cappuccio diffidava di me e quindi per questa ragione, quando veniva a trovarmi, si faceva accompagnare sempre da un fratello. Dissi quindi a Salvatore Savarese che doveva far prendere fiducia a Pasquale Cappuccio, cosicché l’avremmo ammazzato solo dopo che lui avesse cominciato a fidarsi nuovamente di me. È questa la ragione per cui si è trovato coinvolto in fatti eclatanti come l’agguato alle Fontanelle. Poi, alla fine, la morte di Pasquale Cappuccio avvenne per un’iniziativa riconducibile ai Mazzarella. Un tale “Pirulino”, uomo dei Mazzarella che viveva alla Sanità, venne da me e mi chiese se Pasquale Cappuccio, che viveva e operava nella zona dei Tribunali, fosse una persona mia in quanto loro, in particolare Francesco Mazzarella e i nipoti di Vincenzo Mazzarella, non si fidavano. Avevano dunque deciso di ammazzarlo ma volevano sapere da me se potevano farlo oppure no. Io dissi a “Pirulino” che Cappuccio non era mio amico e che loro potevano fare quello che volevano. Così poi Cappuccio fu ucciso proprio per mano delle due persone che sono state processate e condannate per il delitto». Giuseppe Misso senior il 12 marzo scorso ha parlato anche dell’organizzazione dell’agguato a Vito Lo Monaco, un rapinatore d’alto livello di origini siciliane che si era legato molto al boss del rione Sanità. Per questo non si fidava di nessuno e per sorprenderlo, secondo il racconto del collaboratore di giustizia, c’era un solo sistema: farlo avvicinare da suoi ex complici nell’assalto a banche e portavalori. «Anni dopo seppi che la Cupola di Secondigliano che era stato proprio Pasquale Cappuccio a mettere in contatto Salvatore Esposito “cavolfiore” (poi ucciso dal clan Misso per vendetta, il 23 ottobre 1999) e “o’ francese” con Contini e la Cupola. Era stato quindi organizzato un piano per sorprendere e portare in trappola Vito Lo Monaco, che altrimenti non sarebbe stato possibile ammazzare. Così “Cavolfiore” e “O’ francese”, che avevano commesso molti colpi con Lo Monaco, lo portarono sulla Tangenziale».

L'omicidio di Vito Lo Monaco raccontato dal boss pentito Giuseppe Misso

«I killer uscirono allo scoperto in una piazzola buia sulla tangenziale e spararono contro Vito Lo Monaco e l’altra persona, Giacobelli. Erano Eduardo Contini, Costantino Sarno e “Nanuzzo” Bocchetti”. Era il 12 marzo scorso quando Giuseppe Misso “o’ nasone” (all’anagrafe Giuseppe Missi, come viene chiamato dagli inquirenti) ha raccontato la sua verità sull’omicidio di Vito Lo Monaco, killer di sua fiducia attirato in trappola il 14 marzo 1992. Per quel delitto (alla base della vendetta contro Salvatore Esposito “Cavolfiore”, episodio per il quale è indagato in stato d’arresto Vincenzo Pirozzi “o’ picuozzo”) il boss della Sanità oggi pentito tira in ballo tre pezzi da novanta dell’”Alleanza di Secondigliano”: Contini, Sarno e Bocchetti. Ecco le dichiarazioni del collaboratore di giustizia sulla vicenda, fermo restando che le persone tirate in ballo devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova contraria. «Per le informazioni che ho raccolto nel corso degli anni, la Cupola di Secondigliano aveva ideato una sottile strategia che prevedeva l’annientamento del clan Misso perché noi non avevamo voluto aderire al loro disegno espansionistico. A questa strategia devono essere ricondotti, in ordine di tempo, l’omicidio del mio compagno Tonino Criscuolo, ucciso per mano di Peppe “o’ ciuccop”, quello di Vito Lo Monaco e infine l’agguato nel quale morirono mia moglie e Alfonso Galeotta. Ho appreso che tutte le varie informazioni sul conto delle persone uccise sono state ad Eduardo Contini da Pasquale Cappuccio. Quando parlo di questi tre episodi mi riferisco a una responsabilità anche di Bosti, Mallardo, Costantino Sarno e Licciardi”» Giuseppe Misso (o Missi) il 12 marzo scorso ha parlato anche dell’organizzazione dell’agguato a Vito Lo Monaco, un rapinatore d’alto livello di origini siciliane che si era legato molto al boss del rione Sanità. Per questo non si fidava di nessuno e per sorprenderlo, secondo il racconto del collaboratore di giustizia, c’era un solo sistema: farlo avvicinare da suoi ex complici nell’assalto a banche e portavalori. «Anni dopo seppi che la Cupola di Secondigliano che era stato proprio Pasquale Cappuccio a mettere in contatto Salvatore Esposito “cavolfiore” (poi ucciso dal clan Misso per vendetta, il 23 ottobre 1999) e “o’ francese” con Contini e la Cupola. Era stato quindi organizzato un piano per sorprendere e portare in trappola Vito Lo Monaco, che altrimenti non sarebbe stato possibile ammazzare. Così “Cavolfiore” e “O’ francese”, che avevano commesso molti colpi con Lo Monaco, lo portarono sulla tangenziale insieme con l’altra persona che lei mi dice si chiamava Giacobetti. Si erano fermati lungo il tragitto in una piazzola buia e così erano usciti allo scoperto i killer che spararono alle due vittime: ovvero, in prima persona, lo stesso Eduardo Contini insieme a Costantino Sarno, “Nanuzzo” Bocchetti. Dunque, quando sono uscito dal carcere, nell’aprile 1999 trovando ospitalità presso l’abitazione di mio fratello Umberto, immediatamente ho iniziato a discutere anzitutto con Salvatore Savarese circa il fatto che bisognava pianificare e portare al più presto a compimento almeno tre omicidi: di Salvatore Esposito “cavolfiore”, di Pasquale Cappuccio e quello di Mario Ferraiolo per le ragioni che ho esposto nel precedente interrogatorio».

il pentito Maurizio Frenna parla della faida del rione Sanità

Ucciso per aver detto una bugia al boss Giuseppe Misso “’o nasone”. Aveva raccontato di aver subito minacce da parte del clan avversario, ovvero Tolomeli-Guida-Vastarella. Ma non era vero e così il capoclan della Sanità ordinò il suo omicidio per «non fare brutta figura con Salvatore Torino ». È uno degli episodi delittuosi compiuti durante la faida della Sanità e di cui parla il pentito Maurizio Frenna nel corso di un interrogatorio ai pm della Dda. Il racconto del collaboratore di giustizia rivela un particolare inquietante della guerra che in pochi mesi fece moltissimi morti. Ecco il racconto: «Questo Enzo (Vincenzo Grieco, ndr) aveva avuto un litigio per futili motivi con tale Della Corte, che era una persona della Sanità che però stava vicino ai Tolomelli- Guida-Vastarella. Enzo mi spiegò che il Della Corte lo aveva minacciato dicendogli “s’adda girà a bandiera”, con ciò facendo riferimento al fatto che prima o poi i nostri avversari avrebbero, a suo avvisot, preso il sopravvento su di noi del clan Misso. Io riferii l’episodio a Missi Giuseppe, capoclan, il quale decise quale ritorsione di “accappottare” il Della Corte. Avuto l’ordine, subito partimmo io e Emiliano Zapata Misso per cercare il Della Corte per ammazzarlo. Io ed Emiliano, che guidava, partimmo a bordo di una motocicletta che tenevamo parcheggiata e che ci veniva custodita da Cuomo Giovanni. Senonchè il Della Corte sfuggì all’agguato (fui io stesso a sparargli, ma non riuscì a colpirlo, ovvero lo colpì forse solo di striscio), ed andò a parlare con Beninato Ciro, che era il suocero del figlio del “gassusaro”, Torino Salvatore detto “totoriello”. Il Beninato si venne ad informare del perchè aveva sparato a Della Corte. Io inizialmente “portai negativo”, nel senso che non gli dissi niente. Poi, avuta l’autorizzazione del Missi, gli raccontai dell’episodio per come ce ne aveva riferito Enzo. Senonchè, il Della Corte negò di aver mai pronunciato quella frase». A quel punto fu organizzata la missione punitiva contro il ragazzo. Continua, infatti, il racconto di Frenna: «Missi, per non fare brutta figura con il “gassusaro”, che all’epoca si era da poco unito a noi provenendo da Secondigliano, diede l’ordine di uccidere il predetto Enzo. Questa persona non aveva niente a che fare con la camorra. Dopo un paio di giorni che il Missi ci aveva dato l’ordine di procedere con l’omicidio, partimmo io ed Emiliano Zapata Misso con la stessa motocicletta, che avevamo già utilizzato per il fallito agguato a Della Corte. Preciso che io guidavo la moto e Misso era armato con una pistola automatica 9x21». Il commando entrò in azione intorno alle nove di sera. Il bersaglio si trovava «in mezzo ai Vergini, che è una via abbastanza grande della Sanità. Il Vincenzo stava insieme ad altri ragazzi. Il Misso scese dalla moto e sparò tre o quattro botte all’indirizzo della vittima». Una vera e propria esecuzione. Dopo l’agguato Misso risalì sulla motocicletta e fuggirono per via Arena della Sanità fino a raggiungere via San Severo a Capodimonte. «Avremmo dovuto trovare il Cuomo che ci doveva aiutare a bruciare la motocicletta, ma giunti lì non lo trovammo. Emiliano subito fuggì in direzione della casa di mia madre. Io rimasi da solo e cercai di bruciare la motocicletta con la stessa benzina del serbatoio, senza però riuscire nell’intento, e poi mi diedi alla fuga anche io. Nel vicolo incontrammo il Cuomo, al quale Zapata consegnò la pistola utilizzata per l’omicidio. Preciso che in occasione dell’omicidio io non indossavo i guanti. Un paio di giorni dopo fui prelevato dai carabinieri della caserma Pastrengo».

Il ritratto fatto dai Misso al boss arrestato Vincenzo Pirozzi

Era minorenne quando Vincenzo Pirozzi entrò a far parte del clan Misso. Fu la sua parentela con il boss Giulio Pirozzi, storico braccio destro di Giuseppe Misso (nella foto), a facilitare il suo precoce inserimento nell’organizzazione criminale. Ma a favorirlo fu anche la relazione sentimentale della sorella Maria con Salvatore Sequino, «il quale - si legge nel decreto di fermo - insieme con il fratello Sequino, è stato sempre organico al clan Misso, fino alla sanguinosa faida scoppiata nella Sanità nel 2005, che ha visto la scissione del gruppo facente capo a Torino Salvatore con cui i citati fratelli si sono schierati». Alla fine degli anni ’90, sebbene fosse ancora minorenne, gli esponenti di maggiore rilievo dell’organizzazione si accompagnavano spesso al Pirozzi. Lo dimostrano i numerosi controlli di polizia a carico del giovane. Oltre che con lo zio Giulio, è stato spesso fermato con Giuseppe Misso junior, Michele Mazzarella, Emiliano Zapata Misso, Salvatore Savarese, Antonio Mazza. Nel decreto di fermo emesso dalla Dda di Napoli sono riportati alcuni controlli di polizia effettuati negli ultimi 10 anni, che secondo la procura forniscono un altro significativo riscontro della sua affiliazione al gruppo Misso. Ecco alcuni nomi di persone che sono state controllate con il Pirozzi: Maurizio De Matteo, già killer e attuale collaboratore di giustizia del clan Misso; Massimiliano Di Franco, condannato quale appartenente al clan; Vincenzo Di Maio, alias “enzuccio a fighetta”; Gennaro Galeota, ferito in un agguato camorristico il 1 luglio 1999 nella “strage di via Fontanelle”; Carmine Grosso, detenuto per 416bis; Salvatore Lausi, deceduto in un agguato nel 2001; Antonio Mazza, fratello di Michelangelo; Salvatore Romagnolo, condannato per 416bis.
«Era molto bravo a guidare la moto, per questo mio zio Giuseppe lo volle come componente del gruppo di fuoco del clan Misso». A parlare è Emiliano Zapata Misso, che nel corso di un interrogatorio, allegato al decreto di fermo, descrive il ruolo di Vincenzo Pirozzi quale killer del clan. Proprio la sua abilità con la moto ne faceva un componente ideale per eseguire gli omicidi. È lo stesso Zapata insieme con il fratello Giuseppe “’o chiatto” a tirarlo in ballo per l’omicidio di Felice Cerbone (per il quale Pirozzi non è indagato), avvenuto alla Maddalena nel ’99. Ecco il racconto: «Il delitto di Cerbone avvenne quando mio zio era già tornato libero. Cerbone commetteva estorsioni nella zona della Maddalena senza versare nulla al clan Mazzarella, che controllava quella zona, e prendendo i soldi per sè. Michele Mazzarella chiese a mio zio Giuseppe di poter utilizzare un killer del gruppo Misso per uccidere Felice Cerbone anche perché sosteneva che la prima persona sospettata, nel caso di un delitto sarebbe stato lui. Mio zio Giuseppe incaricò del delitto Vincenzo Pirozzi “’o picuozzo”, al quale ultimo Michele Mazzarella promise che avrebbe avuto un bel regalo in soldi. Pirozzi era affiancato da Angelo Marmolino detto “mezzalingua” del gruppo Mazzarella e i due insieme avrebbero dovuto portare a termine questa esecuzione. Il giorno in cui avvenne il delitto, per due tre volte Vincenzo Pirozzi ed Angelo Marmolino si recarono nella zona della Maddalena allo scopo di individuare e sorprendere Felice Cerbone, ma non lo trovarono. Quando tornarono da Michele Mazzarella, quest’ultimo si arrabbiò perché diceva che era impensabile che Cerbone non stesse lì nella zona dove commetteva le estorsioni. Infatti, lo trovarono subito e Michele Mazzarella lo ammazzò mentre Vincenzo Pirozzi guidava il motorino, su cui erano andati in zona. Posso riferire queste circostanze in quanto mi sono state raccontate da Vincenzo Pirozzi, il quale mi disse che Cerbone era morto vicino ad un negozio di scarpe».

Arrestato Giulio Pirozzi: è il reggente dei Lo Risso del rione Sanità

Latitante esattamente da quattro mesi, era partito ugualmente per le vacanze con la famiglia. Ma proprio questa circostanza ha permesso ai carabinieri di stanarlo e ammanettarlo, notificandogli il provvedimento restrittivo emesso nei suoi confronti il 25 marzo scorso. Secondo la procura antimafia (fermo restando la presunzione d’innocenza fino a un’eventuale condanna definitiva) Vincenzo Pirozzi “’o picuozzo”, pregiudicato 27enne di via Gradini Cinese nonché nipote del boss Giulio Pirozzi, è uno dei responsabili dell’omicidio di Salvatore Esposito detto “Cavolfiore”, il cui mandante sarebbe l’ex padrino pentito Giuseppe Misso “o’ nasone”. Il giovane è anche accusato di associazione camorristica per aver fatto parte del clan Misso, anche se oggi viene definito dagli investigatori “reggente dei Lo Russo nel rione Sanità”. Sono stati i carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli a catturare a Gaeta (in provincia di Latina) Vincenzo Pirozzi. È stato sorpreso in un appartamentino di via Bologna in compagnia della moglie e dei tre figli; non ha opposto resistenza e si è lasciato tranquillamente ammanettare. Sapeva di essere ricercato, ma è rimasto meravigliato che gli uomini dell’Arma lo rintracciassero proprio nel periodo di vacanza. A tirarlo in ballo nella ricostruzione dell’omicidio di Salvatore Esposito, avvenuto il 23 ottobre 1999, sono stati due collaboratori di giustizia che accusano anche se stessi e in parte, ancheuna testimone di giustizia: Carmela Marzano, che si trova in località protetta insieme con il marito pentito Luigi Giuliano, ex “’o rre” di Forcella. Ecco quanto hanno dichiarato, con la consueta premessa che le persone tirate in ballo devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova contraria. Cominciamo da Giuseppe Misso senior, chiamato Missi dalla procura antimafia per un errore anagrafico. Il collaboratore di giustizia il 12 marzo 2008 ha raccontato prima il retroscena dell’omicidio di “Cavolfiore”, che fu una vendetta per l’agguato mortale costato la vita a Vito Lo Monaco, uno specialista in rapine di alto livello e killer di fiducia proprio del boss soprannominato “’o nasone”. Poi ha indicato i responsabili, dopo aver confermato che era stato lui il mandante, in Maurizio De Matteo (Frenna), Michelangelo Mazza e Vincenzo Pirozzi. «Quando sono uscito dal carcere, nell’aprile 1999- ha sostenuto Misso - trovando ospitalità presso l’abitazione di mio fratello Umberto, immediatamente ho iniziato a discutere anzitutto con Salvatore Savarese che bisognava al più presto pianificare e portare a compimento almeno tre omicidi: di Salvatore Esposito “cavolfiore”, Pasquale Cappuccio e Mario Ferraiolo. Avevo saputo da Sarno infatti, durante un periodo di comune detenzione, che la Cupola di Secondigliano aveva utilizzato informazioni precise passate da Pasquale Cappuccio, che aveva pure messo in contatto “cavolfiore” e “o’ francese” con Contini e la Cupola. Era stato così organizzato per attirare in trappola Lo Monaco, che altrimenti non sarebbe stato possibile ammazzare». Il 18 giugno e il 3 luglio 2007 Maurizio Frenna sostenne di essere l’esecutore materiale dell’omicidio. «A sparare fui io con una calibro 38. Vincenzo Pirozzi portava il ciclomotore e sul posto c’erano anche Michelangelo Mazza, Ciro De Marino, Salvatore Sequino, Gennaro Galeotta e Miranda Salvatore». Infine, il racconto di Carmela Marzano che il 24 ottobre 2003 permetteva di riaprire le indagini: «Mi trovavo casualmente in via Duomo e ho visto Maurizio “e’ cianella” (Frenna) uccidere Esposito».

Arrestato Raffaele Cuccaro: è il boss di Barra

Vestito di bianco in maniera appariscente, il capoclan Raffaele Cuccaro di Barra aveva guidato un manipolo di presunti taglieggiatori all’assalto dei titolari di una società di Pollena Trocchia che opera nel settore tecnologico. Obiettivo: fare in modo che gli imprenditori rinunciassero a un credito di 250mila euro, stabilito con sentenza del Tribunale Civile per una mancata fornitura di merce, nei confronti di una ditta “amica”: la “CTC spa”, con sede nel Centro Direzionale di Napoli. Non poteva immaginare il boss, reggente del gruppo omonimo, di essere riconosciuto dai carabinieri di Cercola anche per il suo abbigliamento, è finito così sotto inchiesta della Dda. Il risultato all’alba di ieri: sei fermi per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Tra i destinatari ci sono anche due amministratori dell’impresa favorita: madre e figlio. Dietro le sbarre sono finiti Raffaele Cuccaro, Andrea e Fabio Andolfi (fratelli tra loro cugini del ras Andrea Andolfi “’o minorenne”, estraneo all’inchiesta ma in passato accusato di gravi reati) e Giuseppe Petrone, tutti affiliati al clan Cuccaro di Barra che avrebbero agito su mandato di esponenti del clan Sarno di Ponticelli, al momento ancora ignoti. Il provvedimento restrittivo è stato notificato anche a Carmine Torre e Patrizia Perrotta, rispettivamente amministratore unico e gestore di fatto della “C.T.C” di Napoli. Le minacce accertate dagli investigatori sarebbero state rivolte da Raffaele Cuccaro, in assenza dei titolari della ditta, al responsabile delle vendite. Le frasi, a voce e scritte su un foglietto formato A4 lasciato dal capoclan, sono ritenute inequivocabili: «Siamo amici di Barra, ci presentiamo per conto degli “amici di Ponticelli”...»; e ancora: «Guagliò, qui le cose non stanno buone, questa è l’imbasciata, portala ai titolari»; e infine: «O si fa così o è peggio per tutti voi... Torneremo a breve, il primo che abbusca sei te». Le indagini sono partite il 10 luglio, intorno alle 18, quando una pattuglia in abiti civili della Tenenza di Cercola notò un gruppetto di 5-6 persone ferme all’esterno di un esercizio commerciale. Uno di loro, tutto vestito di bianco, attirò particolarmente la loro attenzione e così gli investigatori annotarono i numeri di targa delle due autovetture in uso al gruppetto fotografando tutti. Ritornati in caserma, i carabinieri controllarono le foto segnaletiche in loro possesso accertando che l’uomo vestito di bianco era Raffaele Cuccaro, uomo di vertice del clan di Barra nonché componente della famiglia dei “Cuccarielli” di via Vela a Barra. La sua foto era negli archivi per i precedenti penali. Il giorno successivo, l’11 luglio scorso, i militari si recarono presso la sede della società a Pollena e si imbattevano in uno dei titolari della attività. Quest’ultimo ribadì quanto il giorno precedente riferito dal suo socio, che però non aveva voluto verbalizzare, aggiungendo che la signora Perrotta, madre di Carmine Torre, titolare della ditta con cui era in atto il contenzioso civilistico, gli aveva telefonato e senza mezzi termini aveva rivendicato a sé e al figlio la paternità della proditoria azione e la riconducibilità dell’azienda alla “gente di Ponticelli”. «Ci avete costretto a me e a mio figlio Carmine a mandarvi quelle persone... Lo sapete che la società non è nostra e che dietro ci sta la gente di Ponticelli?». Un ulteriore indizio a carico degli indagati, anche se le parti lese nel corso degli accertamenti hanno avuto un comportamento più che timido, evidentemente impauriti. Raffaele Cuccaro detto “Rafele”, fratello del boss Michele e dell’altro fratello ras Angelo, salì alla ribalta della cronaca nel 2005 per un episodio che fuoriesce un po’ dai consueti canoni camorristici: si consegnò nel carcere di Milano per scontare un residuo di pena di poche settimane per associazione mafiosa, frutto dei calcoli successivi alla pronuncia della Corte di Cassazione sulla condanna. Ma non solo: l’anno dopo si mise in evidenza perché stava realizzando un attico, naturalmente abusivo. Ben duecento metri al terzo e ultimo piano del palazzo di “Magliano”, anagraficamente situato in corso Sirena 277 a Barra. I lavori furono bruscamente interrotti dalla polizia e dai vigili urbani e lui denunciato a piede libero per aver violato la legge che regola le nuove costruzioni. I Cuccaro, soprannominati i “cuccarielli”, hanno il loro “regno” a Barra e sono stati per anni in guerra con i Formicola di San Giovanni a Teduccio. Alla base dei sanguinosi contrasti secondo gli inquirenti c’era l’agguato mortale contro Salvatore Cuccaro, potente numero uno della cosca familiare di Barra nonostante avesse soltanto 31 anni. Era il 3 novembre del ‘96 e il ras si trovava in compagnia di un amico incensurato nei pressi del commissariato di zona. Aveva appena firmato il registro dei sorvegliati speciali e in moto, sul sellino posteriore, stava tornando a casa. I sicari furono rapidissimi: si affiancarono e scaricarono una raffica di piombo sul pregiudicato.

Preso a Casalnuovo il boss ex cutoliano Giuseppe Esposito

Arrestato, alle prime luci dell’alba del 23 Luglio, dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Castello di Cisterna, in esecuzione ad un provvedimento cautelare della DDA di Napoli, il potente padrino cutoliano Giuseppe Esposito alias “Pepp 'o Schizzo”, personaggio molto noto tra i “ponticellari” vicino ai Sarno. L’ordinanza cautelare disposta dalla Dda di Napoli è stata concretizzata sulla scorta delle dichiarazioni rese dai pentiti Paolo Di Grazia (marito della figlia dell’arrestato) e successivamente confermate dal collaboratore Giovanni Messina, personaggio emergente della mala acerrana, che aveva dato vita ad un cartello criminale, operante tra Casalnuovo, Acerra, Caivano e la stessa Carinaro, in provincia di Caserta. Giuseppe Esposito, 49 anni, pluripregiudicato, meglio noto come “Pepp 'o Schizzo”, che per anni è stato ritenuto elemento di punta del sodalizio criminale capeggiato dal boss della Nco, Raffaele Cutolo, da tempo si era trasferito a Casalnuovo, dove per qualche tempo si era anche trasferita la figlia che aveva sposato il collaboratore Paolo Di Grazia. L’uomo, tornato libero dopo una lunga detenzione, aveva da qualche tempo iniziato ad occuparsi di ristorazione, partecipando alla gestione familiare di un noto “ristorante” ubicato lunga la centralissima via Benevento (che congiunge Acerra a Casalnuovo), che risulterebbe essere intestata ad una congiunta. Quando i carabinieri si sono presentati sull’uscio dell’abitazione, il 49enne non ha opposto alcuna resistenza, invitando i suoi familiari a mantenere un atteggiamento “rispettoso” del lavoro dei carabinieri. Insomma un atteggiamento tipico di un “uomo di rispetto” d’altri tempi. Secondo il capo d’accusa contestato all’indagato (sulla scorta delle dichiarazioni rese da Paolo di Grazia e Giovanni Messina), Giuseppe Esposito avrebbe avuto un ruolo di prim’ordine nell’omicidio di Salvatore Gaglione, commesso a Carinaro il 12 aprile del 1996, per il quale avrebbero avuto un ruolo, oltre ai due “eccellenti” pentiti (Messina e Paolo Di Grazia), anche Riccardo Di Grazia (anch’egli collaboratore di giustizia), Salvatore Belforte, Modestino Cirella e Cuono Piccolo, già tutti indagati per questo procedimento penale, che ha visto il proprio avvio nel 2004, facendo scaturire tutta una serie di ordinanze cautelari in carcere che hanno colpito personaggi di grosso spessore criminale, non solo della mala napoletana ma anche di quella casertana. Resta chiaro che nel corso delle prossime ore, dinanzi alle contestazioni del giudice delle indagini preliminari che ha firmato il provvedimento cautelaivo, l’indagato (il cui nome era stato sempre marginale all’inchiesta) potrebbe avvalersi della facolta di non rispondere, anche per permettere al suo legale di fiducia di prendere correttamente visione di tutte le dichiarazioni rese dai due “pentiti”, che con i loro racconti hanno falcidiato un intero cartello criminale, che partendo da Carinaro (facendo capo ai Di Grazia) e passando per Acerra (guidata da Mario De Sena, Messina,ecc ), Caivano (Castaldo – alias O Farano), Casalnuovo (Gallucci- Piscopo), Volla ed infine “Ponticelli” (Sarno), aveva dato vita a quella che era già stava battezzata “La nuova camorra Organizzata 2”. Organizzazione che vedeva tra i principali partecipi i vecchi e nostalgici cutoliani, sempre affascinati dalle gesta del mitico “Professore” di vesuviano. Tornando alla fase investigativa, che sembra comunque inestinguibile, è chiaro che le dichiarazioni rese già nei mesi passati da Giovanni Messina (che tra l’altro si è autoaccusato dell’omicidio eccellente di Raffaele D’Urso Caterino - genero del boss Cuono Crimaldi alias “Cuniello 'e Capasso), sommate a quelle già rese dai due fratelli Di Grazia e dal fedelissimo Francesco Paccone (alcune delle quali ancora segregate), stanno rendendo sonni inquieti a decine di personaggi, molti dei quali, citati nei verbali d’interrogatorio, ma per i quali comunque non poteva essere emessa alcuna misura detentiva. In ogni modo, l’arresto di “Pepp o Schizzo, lascia presagire l’avvio di una nuova stagione di “pentimenti”, anche se sembra abbastanza chiaro che qualcuno di questi pentimenti sono da considerarsi “pentimenti ad orologeria”, buoni per ogni stagione.

martedì 22 luglio 2008

Muore anche Vincenzo Valentini, il 22enne che era con Vincenzo Sinno a Caivano

È morto ieri mattina alle 5,20 nel centro rianimazione dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno dopo tre giorni di agonia. Vincenzo Valentino, 22 anni. Il giovane ha avuto la sfortuna di trovarsi in auto con il boss Vincenzo Sinno al Parco Verde. Sulla testa del ras, che era uscito dal carcere da circa un mese e stava riorganizzando i suoi affare al Parco Verde, pesava una condanna di morte da parte dei clan avversari. Una raffica di proiettili si è abattuta sui due, massacrando Sinno e ferendo in maniera gravissima il 22enne. Valentino, incensurato, era residente a Caivano sulla Circumvallazione Ovest, nel rione Iacp. Il magistrato ha disposto sul corpo del giovane l’autopsia, che aiuterà gli inquirenti a capire meglio le esatte dinamiche dell’agguato. Intanto, il corpo del ras Sinno sarà consegnato oggi alla famiglia. Il questore ha vietato, per motivi di sicurezza, i funerali. Per questo la salma verrà benedetta prima di essere poi tumulata nel cimitero. È ancora caccia aperta ai killer. Perquisizioni ed uno stube ad alcuni pregiudicati del Parco Verde per risalire al commando di fuoco. Sinno, 39 anni, pregiudicato per reati di estorsione e droga, era ritenuto in passato vicino al clan Pezzella era stramazzato al suolo dopo aver aperto la portiera della fiammante fiat punto su cui era salito da poco. L'uomo era fuori dai giri da circa dieci anni da quando era stato chiuso in cella per un cumulo di pene. La sua uscita lo ha visto finire nel mirino della malavita locale. A pagare per essersi trovato in sua compagnia il giovane incensurato che ora lotta in un letto di ospedale dopo essere rimasto crivellato da numerosi colpi di pistola. Due colpi ad un gomito con fori di entrata ed uscita, un proiettile al torace alto. Uno alla nuca, probabilmente quando nel tentativo di fuga a piedi il giovane si è allontanato dal veicolo che guidava. I killer volevano finirlo ma probabilmente il timore di essere bloccati dall'imminente arrivo dei carabinieri li ha fatti desistere prima che il giovane spirasse. Valentino era stato soccorso dagli uomini del 118 e per quel proiettile alla testa è stata necessaria una delicatissima operazione che ora lo vede in rianimazione presso l'ospedale San Giovanni Di Dio e Ruggi d'Aragona. Il giovane era stato trasferito qui dopo essere giunto in gravissime condizioni presso il più vicino nosocomio frattese. Le sue condizioni rimangono gravi ma sono stazionarie. In tanto le indagini serrate dei carabinieri della Compagnia di Casoria procedono senza sosta. In queste ore sono stati ascoltati i parenti della vittima che hanno ricostruito dinnanzi agli inquirenti nei dettagli l'ultimo mese del pregiudicato che era uscito di carcere dopo una condanna di dieci anni. Nell'immediato sono state effettuate perquisizioni presso alcune abitazioni di pregiudicati ed è stato fatto uno stube, per il cui risultato si dovrà attendere. Si cercano elementi chiave che possano ricondurre al commando. Nel mirino anche le armi che hanno fatto fuoco esplodendo circa una quarantina di colpi. Sarebbero quattro una sette e settantacinque, una calibro trentotto, una 9 per per 21 ed un kalashnikov. Altrettanto quattro potrebbero essere i killer spietati portatori di morte e di un messaggio di sangue. inquirenti non escludono alcuna pista per risalire al movente dell'efferato omicidio.

Il pentito La Sala delinea la nuova situazione al Rione Sanità

Le sue dichiarazioni sul rione Sanità sono molto prese in considerazione per delineare la nuova mappa della camorra, anche perché precise e di ultima generazione. Era il 22 febbraio scorso quando Vittorio La Sala, ex affiliato ai Misso transitato con i Torino, raccontava ciò che sapeva per aver vissuto in quell’ambiente fino a pochi giorni prima. Esattamente quando cercarono di ucciderlo, il 30 gennaio 2008. Naturalmente va sottolineato che le persone tirate in ballo devono essere ritenute estranee ai fatti narrati fino a prova contraria. «Questa è la situazione determinatasi oggi alla Sanità. A causa della collaborazione dei Misso e delle detenzioni dei Torino, questi due sodalizi hanno perso peso. Oggi chi comanda è Nicola Di Febbraro, dietro al quale c’è Salvatore Lo Russo con l’obiettivo di impadronirsi della Sanità. Di Febbraro controlla entrambi i gruppi che si sono formati. Uno fa capo a Ciro De Marino, che ha con sé Enzo Pirozzi detto “’o picuozzo”, Vincenzo Troncone e Salvatore Savarese junior detto “’o mellone”; l’altro gruppo fa direttamente capo a Di Febbraro ed è formato da Giovanni Sirio, braccio destro di Di Febbraro, Franco Barra, Enzo De Martino, Alfonso, cugino di quest’ultimo, e tale Dino detto “’o limone”. Tutti gli uomini di Di Febbraro vengono da Marianella e questi fino a pochi giorni fa, quando venivano alla Sanità, si appoggiavano a me e a Eduardo Spina che abita ai Miracoli. I fratelli Sequino negli ultimi tempi stanno fermi, in attesa di verificare ciò che accadrà».

Arrestati due affiliati al clan Misso, ma il "pezzo grosso" Antonio Cardinale è sfuggito all'arresto

È accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico e per questo due giorni fa è stato emesso un decreto di fermo nei suoi confronti. Si tratta di Antonio Cardinale, nato a Napoli il 21 ottobre del 1959 e residente in salita Moiariello al civico 13. I carabinieri non lo hanno trovato e per questo adesso lo stanno cercando. Due giorni fa sono stati invece arrestati Gennaro Gaeleota e Mariano Mirante. Quest’ultimo ha tre capi di imputazione: il 416 bis come affiliato ai Misso, il 416 bis come affiliato al clan Torino e il concorso in omicidio aggravato, quello di Vincenzo Prestigiacomo per il quale sono sotto processo il collaboratore di giustizia Salvatore Torino e il nipote Faustino Valcarenghi. «Antonio Cardinale come già detto cura tutte le estorsioni della zona della Sanità, utilizzando generalmente due o tre persone da me non direttamente conosciute, a volte anche qualche persona che gli mandavamo noi». Questo è quanto racconta Giuseppe Misso nel verbale del 17 maggio del 2007. Il collaboratore di giustizia tratteggia il profilo del ras che è sfuggito alla cattura da parte dei carabinieri. «Oltre alla estorsioni alle quali ho già accennato, quelle sui lavori a via Cirillo per i quali avevamo 20mila euro ogni due o tre mesi, quella sui lavori della metropolitana a Materdei, quelli di ristrutturazione di via Foria, quella sui lavori di consolidamento e di ristrutturazione di strade e palazzi di via Luigi Settembrini, in occasione della quale arrestarono anche un ragazzo di Tonino Cardinale, mi sembra si chiami Tonino ’o fanatico. Cardinale personalmente e su mio mandato chiuse una estorsione al figlio di “’o chiacchierone” il quale abita a Santa Lucia, ossia nella nostra zona per il tramite di Tonino Economico, ma a un ristorante a Cuma. Tonino chiuse l’estorsione per 30mila euro ed i soldi furono materialmente consegnati a Pasquale Ceraso che se li andò a prendere a Cuma, me li portò ed io poi sottrassi la somma di 5mila euro per Tonino Cardinale. Per individuare il chiacchiarone a cui faccio riferimento, preciso che si tratta di uno storico contrabbandiere e di persona molto ricca il quale ad esempio fu costretto da mio zio Giuseppe a versargli la somma di un miliardo di vecchie lire per compensare i precedenti finanziamenti che il chiacchierone aveva fatto con l’Alleanza di Secondigliano». Ma non solo perché a parlare del profilo di Tonino Cardinale c’è anche Pasquale Gatto, altro collaboratore di giustizia della cosca che ha rilasciato il 9 ottobre del 2007 le dichiarazioni ai pubblici ministeri della Dda che indagano sul malaffare della Sanità. «L’estorsione di 140mila euro ad un cantiere a San Giovanni Carbonara tra il 2005 e il 2006 è stata perpetrata un’estorsione ad un’impresa che, nella zona di San Giovanni a Carbonare stava realizzando dei lavori per la trasformazione di una scuola in un grande albergo. Ricordo che da un giorno vennero da me il custode di questa scuola insieme al responsabile del cantiere e mi dissero che era stato intimato il blocco dei valori e che era, dunque, in atto una estorsione».

Le rivelazioni di Salvatore Torino sulle vicende interne ai Lo Russo

Mi allontanai perchè Antonio aspirava a fare il boss e il padre non voleva. «Ero pronto a scatenare una guerra con i Lo Russo» A parlare è Salvatore Torino, alias “’o cassusaro”. L’ex boss del rione Sanità in un verbale del 24 aprile scorso ha raccontato agli inquirenti della Dda i suoi passati criminali. Le sue dichiarazioni sono state inserite nel decreto di fermo che ha portato all’arresto di Mariano Mirante e di Gennaro Galeota. Racconta della sua affiliazione al clan Lo Russo e dalla sua dipartita alla Sanità. Ecco cosa spiega nello specifico. «Il mio ingresso nel clan Lo Russo si deve ai contatti che avevo con Lo Russo Domenico che abitava vicino a me a Marianella. Nel clan Lo Russo sono rimasto fino alla scissione avvenuta nel 1999 e mi sono occupato, quale affiliato, di tutte le attività criminali che si svolgevano, soprattutto omicidi e droga. Lei mi chiede quali sono i motivi che hanno determinato la scissione dal clan Lo Russo e io rispondo che il giorno prima dell’arresto in Spagna di Giuseppe Lo Russo che era latitante lui ci aveva indicato quali referenti nel clan e persone che avrebbero dovuto curare i suoi interessi e proseguire nella sua linea criminale. Quando parlo di noi mi riferisco a me, Ettore Sabatino, Spina Francesco, a Peppe “’o biondo”. Tuttavia Antonio Lo Russo, figlio di Giuseppe, voleva fare lui il capo e per questo stavano nascendo contrasti, soprattutto legati alla spartizione dei proventi illeciti. Arrivò anche a schiaffeggiare Francuccio, figlio di Ettore Sabatino, cosa che provocò la reazione del padre disposto a questo punto ad imbracciare le armi. Prima della vera e propria scissione con il nostro allontanamento da Secondigliano vi fu un po’ di freddezza con i Lo Russo, preparatorio della scissione nella quale noi avevamo riuniti attorno a noi, a Marianella, un nutrito gruppo di persone sulle quali potevamo contare. Avevamo avuto infatti l’appoggio dei Russo dei Quartieri Spagnoli, dei Tolomelli, di persone legate al clan Pezzella e a Ciccarela Antonio di Caivano, poiché quest’ultimo amico e nipote di Sabatino».
Le alleanze si sanciscono a colpi di mitragliette. Questo è quanto ha raccontato l’ex boss del rione Sanità Salvatore Torino che da alcuni mesi ha iniziato la sua collaborazione con la giustizia. «Per dimostrare la considerazione che io avevo alla Sanità e dal clan Misso, venne ucciso un ragazzo, un tale Enzo, da Maurizio De Matteo e Misso Emiliano Zapata, poiché questo ragazzo mi aveva fatto una sgarberia, volendosi rubare un mio motorino a sua volta rubato, che io avevo affidato ad un ragazzo della Sanità. Fu poi lo stesso Misso Giuseppe che accolse il nostro gruppo scissionista alla Sanità, essendo interessato alla nostra disponibilità a portare attacchi omicidi contro l’Alleanza di Secondigliano ed in particolare contro il clan Licciardi. Ricordo come significativo, in tal senso, un incontro sopra un terrazzo tra Giuseppe Misso, Ettore Sabatino, Michele e Savio Armento, al quale presenziai anche io. Già prima vi erano stati altri analoghi incontri fissati dal clan Misso per il tramite del mio suocero Ciro Beninato. Ricordo bene l’incontro sul terrazzo dell’abitazione di Umberto Misso perché ad un certo punto iniziò a volteggiare un elicottero e sapemmo che era stato ammazzato al mercato il nipote di Ettore Sabatino. So che questo omicidio è stato commesso da Antonio Lo Russo, figlio di Giuseppe e da Pompeo, genero di Salvatore Lo Russo. In risposta a questo omicidio, ma soprattutto per accreditarci definitivamente con il clan Misso, che richiedeva da noi la prova di aver tagliato i ponti con Secondigliano, commettemmo l’omicidio di Murolo che era dei Licciardi».

Il pentito Vassallo "sull'affaire monnezza" denuncia i Casalesi

Il prezzo per lo stoccaggio di rifiuti speciali in Campania era stracciato, imbattibile sul mercato. Così le ditte del nord si passavano la voce e stoccavano le scorie prodotte dalle loro industrie nelle campagne di Giuliano, Aversa, Trentola Ducenta, Ischitella. In cambio ricevevano delle false fatture maggiorate del prezzo realmente pagato. La ditta di stoccaggio faceva questo piacere, così loro nello storno della dichiarazione dei redditi riuscivano ad ottenere un rimborso maggiore di Iva. Registi di questo immenso disastro ambientale e fiscale erano imprenditori insospettabili e camorristi-manager diretti dal boss Francesco Bidognetti. Il 19 Luglio la Direzione distrettuale antimafia, ha dato esecuzione ad un decreto di sequestro probatorio di otto discariche abusive dopo le indagini. Otto siti tutti ricompresi tra Giugliano e Aversa, in campagne che solo apparentemente erano adibite a coltivazioni ma che in realtà nascondono delle bombe-ecologiche senza pari. A svelare il patto tra camorra e imprenditori è stato Gaetano Vassallo. L’uomo (era libero anche se indagato in più processi proprio per la contiguità con il clan dei Casalesi) un bel giorno si è presentato alle porte della Questura ed ha raccontato di volersi pentire. Grazie ai suoi racconti gli investigatori hanno messo sotto inchiesta 17 persone, 9 delle quali fratelli dello stesso pentito. Un sistema che lui stesso definisce perfetto e che permette alla camorra di fatturare decine di milioni di euro ogni anno. Le società di stoccaggio ricevevano dal nord tutti i rifiuti che difficilmente le altre ditte autorizzate riuscivano a smaltire a costi contenuti. I carichi arrivano su dei tir e venivano scaricati così com’erano nelle campagne. «Per ogni chilogrammo di rifiuto conferito nella mia discarica io guadagnavo 10 lire al chilogrammo ». Gaetano Vassallo è un fiume in piena e riempie pagine e pagine di verbali che hanno arricchito le conoscenze degli investigatori e degli inquirenti che indagano sul clan dei Casalesi e sul business del traffico di rifiuti speciali proveninenti dal nord Italia. Milioni e milioni di euro che ogni anno venivano accumulati dai fratelli Vassallo, tutti denunciati per concorso esterno in associazione camorristica e per disastro ambientali, che usavano in parte per pagare tangenti ai funzionari e in parte per comprare immobili, alberghi e auto di lusso. Ecco cosa ha raccontato l’ex imprenditore ora passato a collaborare con lo Stato. «Gli accordi con Francesco Bidognetti e con Gaetano Cerci si articolavano in due modi distinti, in un caso, qualora i rifiuti speciali e solidi urbani extraregionali, venivano smaltiti effettivamente presso la discarica, io provvedevo a versare 10 lire al chilo a Cerci, somme che consegnavo mensilmente in contati. Ero io personalmente a tenere i conteggi e usavo portarmi da Cerci cui esibiso i documenti di contabilità accompagnati da un brogliaccio manoscritto nel quale annotavo i ricavi, In base ai miei conteggi calcolavo le 10 lire al chilo e consegnavo le somme a loro. Circa 15 milioni di lire al mese». È lo stesso pentito a raccontare come faceva a raggirare il clan. «Io evitavo sempre di contabilizzare correttamente i ricavi così da evitare di pagare di più a loro. Cerci infatti non riusciva a tenere bene i conti e per me era facile ingannarlo, essendo questi impegnato a considerare contemporaneamente sia la mia discarica, sia quella di Luca Avolio e di Cipriano Chianese. Ovviamente la possibilità di fare questo mi era data anche dalla circostanza che i produttori e i trasportatori erano riservati e non dicevano nulla. Io glielo chiedevo espressamente». «La contabilità in nero fu parzialmente da me bruciata e sotterrata nel giardino dell’abitazione di mia madre a Cesa, nel periodo che precede il mio arresto del 1993. Era una precauzione per evitare problemi di natura fiscale». «Questa operazione è l’ennesima dimostrazione che i traffici di rifiuti con il corollario di disastri ambientali, oltre a rappresentare un business per la criminalità organizzata, rappresentano un serio problema di sicurezza e come tali devono essere affrontati». La camorra, come pure gli altri sodalizi criminali, si è sempre caratterizzata come movimento anti-ecologista. Fin dalla sua nascita ha avuto la pretesa di trasformare il territorio, di controllare e gestire ogni suo singolo mutamento. Quasi tutti i business malavitosi hanno un forte “impatto ambientale”, manifestando un evidente spregio per la natura, gli uomini, gli animali. Del resto controllare un territorio, trasformarlo secondo le proprie pretese, significa esercitare al meglio il dominio su persone, animali e cose che vi appartengono». Per anni e anni hanno sversato di tutto nelle campagne tra Giugliano ed Aversa. Ci hanno costruito su palazzi, condomini dove scorrazzano bambini di ogni età. Ci hanno costruito su delle scuole e anche delle strade arse dal sole in estate e allagate d’acqua d’inverno. Ma ai camorristi non frega nulla. Il vero problema è che oramai l’inquinamento ha raggiunto dei livelli altissimi. Dicono i pubblici ministeri a pagina 87 del decreto di sequestro probatorio che il danno procurato all’ambiente conseguente all’attività svolta dagli imprenditori collusi è davvero incommensurabile e difficilmente reversibile. Per questo il reato che contesta la Procura è di disastro ambientale e nei prossimi giorni partiranno i rilievi disposti dalla Procura. Le otto discariche sequestrate sono state indicate tutte dal collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo. Il 29 maggio inizia a parlare dei rifiuti e racconta in poche righe ciò che è la sintesi più raccapricciante di ciò che sta avvenendo a Napoli e in provincia e in buona parte del casertano. «In poche parole, tutto il sistema dei rifiuti, sia gli rsu che i rifiuti speciali, nelle diverse fasi della gestione stessa, ad esempio il trasporto, lo smaltimento, la raccolta, era completamente gestito e controllato dalla criminalità organizzata e ciò si nel periodo in cui la raccolta era affidata ai privati, sia nel periodo in cui la gestione è poi passata al pubblico con le ecoballe. Non era assolutamente possibile che una società non collegata e non indicata da uno dei clan operanti nelle zone dove i rifiuti venivano gestiti potesse avere anche solo una piccola parte di lavoro. Chi lavorava nel settore dei rifiuti lo faceva solo se era stata preventivamente individuata dalla criminalità organizzata e questa aveva dato il suo placet. In sostanza un camion di una ditta non collegata non avrebbe mai potuto lavorare, caricare, scaricare, movimentare rifiuti per uno di questi siti. Nei pressi di Giugliano, spiegano gli inquirenti della Dda, c’è una collina formata dall’accumulo di materiale nocivo: pneumatici triturati, rifiuti farmaceutici, oli industriali, batterie di auto, auto distrutte, rifiuti cimiteriali e ospedalieri. Non c’era un solo materiale che non potesse essere occultato sotto le campagne del giuglianese. A nessuno interessava se la falda acquifera era distante a poche decine metri di profondità e se fosse già in atto un inquinamento delle acque. Lì i topi morivano, gli infetti fuggivano e non cresceva neanche un filo d’erba. La “monnezza” del nord creava un deserto al sud e ricchezza nelle tasche dei camorristi. Gli imprenditori dello stoccaggio, ha spiegato poi Vassallo, accumulano soldi che destinavano in parte a pagare tangenti ai funzionari pubblici corrotti. Ci sono indagini in corso per individuare le ditte che erano a conoscenza di questo meccanismo e le responsabilità degli enti pubblici coinvolti che avrebbero dovuto controllare e non l’hanno fatto.

venerdì 18 luglio 2008

Ucciso a Caivano Vincenzo Sinno vicino al clan Pezzella

Era uscito dal carcere un mese fa , pregiudicato crivellato di colpi in un raid di morte al Parco Verde. Muore in una pozza di sangue Vincenzo Sinno, 39 anni, pregiudicato residente nel rione della 219 vicino al clan Pezzella. Ferito ed in gravi condizioni Vincenzo Valentino, incensurato, 24 anni, residente al rione Iacp, che accompagnava Sinno ed era alla guida di una fiammante Fiat Punto grigia. La loro partenza a bordo di quell'auto nel Parco Verde si è interrotta nella piazzetta centrale intitolata a Padre Pio ad un passo dal supermercato e alle spalle del bar. I primi soccorritori e quanti si sono affacciati e sono accorsi a verificare l'accaduto, hanno potuto osservare l'auto guidata da Valentino con al fianco Sinno bloccata con le ruote posteriori poggiate su un marciapiede con alle spalle uno spiazzo dell'isolato da cui l'autovettura stava per scendere. Sinno era caduto ad un passo dalla portiera crivellato di colpi, Valentino era ancora vivo e chiedeva aiuto stramazzato al suolo un po' più avanti sotto i colpi incalzanti del commando che credeva fosse morto e si è dileguato. La scena si è svolta ad un passo dall'isolato 4 C. L'ultimo proiettile esploso era ben distante da dove l'auto si è bloccata in una scia di colpi che ha forato frontalmente il parabrezza dell'auto con dei fori al lato del guidatore e del passeggero. Sinno che risiede proprio qui era appena sceso dalla sua abitazione e senza avere neanche il tempo di scambiare una battuta con il suo accompagnatore è stato freddato da un commando di fuoco. Almeno quattro, considerando i differenti tipi di pistola usati, i killer spietati che hanno scaricato gli interi caricatori di una 7 e sette e settantacinque, di una calibro trentotto, di una nove per 21 e qualche colpo di un kalashnikov. L'agguato potrebbe essere stato messo a segno da almeno quattro persone a bordo di motorini, considerando l'esigenza di una veloce fuga e di fare perdere ogni traccia in quello che è un vero e proprio labirinto di viuzze ed isolati. Un raid punitivo portato a termine solo a metà. Valentino è stato soccorso dagli uomini del 118 e accompagnato prima presso l'ospedale San Giovanni Dio e successivamente in un nosocomio salernitano. Sul posto sono giunti i carabinieri della Compagnia di Casoria. I militari hanno circoscritto l'intera zona e hanno effettuato i rilievi del caso. I colpi contati in terra sono almeno diciannove, quelli che hanno forato la carrozzeria dell'auto un'altra quindicina. I militari hanno ascoltato i familiari ed i presenti alla ricerca di eventuali testimoni scontrandosi con un muro di omertà ed hanno avviato le indagini del caso in quello che rappresenta la roccaforte dello spaccio. Sinno aveva sicuramente legami con la criminalità locale. Una tra le prime piste battute dagli inquirenti la possibilità che una volta uscito di carcere stesse tentando di riinserirsi nell'organigramma della malavita che vede il parco verde diviso in differenti il suo ritorno a casa. La sua volontà di riprendere a far parte di legami e accordi potrebbe essergli costata cara. Tutte ipotesi queste ora al vaglio degli inquirenti che tuttavia non escludono nessuna pista e stanno passando al setaccio la vita del pregiudicato morto cercando di risalire a fatti che gettino luce su l'ennesimo omicidio di camorra. Vincenzo Sinno era uscito di carcere appena un mese fa. Aveva scontato una condanna per estorsione, rapina e reati per droga. Questa la chiave di lettura di questo omicidio. Era residente al Parco Verde. L'agguato di stampo camorristico che ha portato alla morte del pregiudicato è incentrato sulla sua figura. Su tutti i suoi ultimi movimenti in quei trenta giorni d'aria dopo le sbarre. In questo mese potrebbe essere accaduto qualcosa che lo ha visto finire nel mirino della malavita locale. Uno sgarro, una richiesta di riprendere le attività legate al Parco Verde o semplicemente una scelta autonoma che ha visto la fine dei suoi giorni. Secondo le prime ricostruzioni potrebbe essere stato legato ad un clan dell'hinterland partenopeo la cui vicinanza potrebbe essergli costata cara. La vittima sarebbe stata vicina al clan Pezzella. Un legame che lo avrebbe visto finire nel mirino. Sinno non era armato così come non lo era il suo accompagnatore. Un segno che lascia pensare che l'uomo girava senza alcun dubbio di essere braccato. Nell'abitacolo dell'auto non è stato trovato un briciolo di sostanza stupefacente. Nulla che possa fare ricostruire una pista che conduca al movente. Eppure ora resta tra la vita e la morte l'unico testimone che ha visto la scena dell'agguato e che potrebbe fornire elementi utili alle indagini. Vincenzo Valentino è per ora l'unico che potrebbe tra l'altro fornire notizie sugli incontri e le frequentazioni dell'uomo. Di sicuro sapeva dove i due si stavano recando nell'immediato dopo pranzo di ieri e se avevano un appuntamento o un impegno. Le indagini nelle prossime ore e la possibilità di acquisire altri importanti tasselli potrebbero indirizzare gli inquirenti sulla giusta pista per la risoluzione dell'agguato.

Scoperto patto di droga tra il clan Di Lauro e la famiglia calabrese degli Alvaro

È un’inchiesta, manco a dirlo, nata da un’intercettazione telefonica. In essa Patrizio De Vitale, fedelissimo dei Di Lauro ammazzato l’anno scorso durante la coda della faida, parlava con alcuni trafficanti di droga all’estero. Uno spunto che si è rivelato decisivo per arrivare all’emissione di 7 ordinanze di custodia cautelare, eseguite ieri dai carabinieri nei confronti di altrettanti esponenti del clan Alvaro di Cosoleto (in provincia di Reggio Calabria). Nel mirino, ma finora solo a livello di “sospetti”, sono finiti anche alcuni pregiudicati napoletani di Secondigliano. Le indagini, iniziate dal Nucleo investigativo di Napoli nel 2005 su un più ampio contesto riguardante la faida di Secondigliano, erano finalizzate ad individuare i canali di approvvigionamento dello stupefacente utilizzati dal clan Di Lauro per importare cospicui quantitativi da distribuire sul territorio nazionale. Un primo sviluppo consentiva di individuare pregiudicati partenopei collegati ad un gruppo criminale calabrese, il quale poi si rese autonomo dai pregiudicati di casa nostra impegnati soprattutto nella terribile faida con gli “scissionisti”. L’attività ha consentito di individuare 8 indagati (uno si è reso latitante) distribuiti tra la Campania, la Calabria, l’Emilia Romagna, la Liguria e la Spagna, ognuno dei quali con compiti specifici in ordine alle diverse fasi dell’importazione e della distribuzione dello stupefacente nel territorio nazionale. La cosca calabrese aveva assegnato ad uno degli arrestati la liquidità necessaria a condurre le trattative per comprare lo stupefacente con la facoltà di concluderle autonomamente, saldando contestualmente ogni singola fornitura. La fase di importazione dello stupefacente avveniva mediante collaudati sistemi di trasporto su autocarri, appositamente modificati al fine di garantirne l’occultamento. A riscontro del “modus operandi” adottato dalla consorteria, in data 15 aprile 2006, in San Bartolomeo a Mare, provincia di Imperia, militari del Nucleo Investigativo di Napoli procedevano al sequestro di 7 chili di cocaina, occultati in un’intercapedine ricavata nella parte posteriore di un autoarticolato e al conseguente arresto dei corrieri provenienti dalla Spagna. In manette sono finiti Demetrio Franceschetti, Rocco Gullace, Carmelo Meliendo, Antonio Morabito, Brunello Moraldo, Franco Posticini, Salvatore Scrivo. Una curiosità relativa sempre a Patrizio De Vitale rigurda in cane "carnera" di ciruzzo 'o millionario. Paolo Di Lauro aveva pagato ben 100 milioni di lire “Carnera”, un mastino napoletano definito dagli esperti uno dei più “belli” d’Italia: un cane che vinceva premi dovunque e del quale il boss andava fiero. L’aveva affidato, dimostrando grande fiducia nei suoi confronti, proprio a Patrizio De Vitale. Un affetto ricambiato dal 47enne con il suo interessamento nel trovare al superlatitante un nascondiglio sicuro. Patrizio De Vitale non aveva grossi precedenti a carico, anche se era finito più volte nel mirino delle forze dell’ordine e della magistratura. Durante la fase più cruenta della faida sparì improvvisamente dalla circolazione per un paio di mesi e gli
inquirenti, che seguivano le sue tracce attraverso le intercettazioni telefoniche e ambientali, pensarono addirittura a un caso di lupara bianca vista la vicinanza con i Di Lauro. E invece non era così: semplicemente, questa l’analisi dei pm, il pregiudicato non voleva prendere parte alla guerra né avere in qualche modo una parte attiva. Però era a conoscenza di diverse cose e ascoltandolo, gli investigatori chiarirono il contesto di due omicidi. La prima volta Patrizio De Vitale salì alla ribalta della cronaca a settembre del 2002. Allora il prezioso cane del padrino soprannominato “Ciruzzo ‘o milionario” fu trovato chiuso in una gabbia buia e umida, digiuno e assetato, una infezione sul dorso causata dalla cattiva alimentazione, le ferite sul corpo che si era fatto da solo, quasi impazzito a star chiuso tra cemento e sbarre. In un casolare fetido era rinchiuso Carnera.

Arrestata Patrizia Licciardi: è la sorella del boss 'o chiatto

Soldi e quote di società in cambio di tranquillità o semplicemente “per non avere guai”. Avevano trovato un ottimo sistema per arricchirsi la sorella dei boss Licciardi di Secondigliano e il marito: coppia affiatata nella vita e anche nel “lavoro” evidentemente. Secondo gli investigatori (fermo restando la presunzione d’innocenza fino a un’eventuale condanna definitiva) avevano messo da molti anni sotto pressione un commerciante all’ingrosso di Arpino di Casoria, ma il sospetto è anche altri siano stati costretti a versare tangenti. A Terracina, in provincia di Latina, sono stati i carabinieri della compagnia di Casoria insieme a colleghi della stazione di Arpino di Casoria a eseguire al decreto di fermo emesso il 15 luglio scorso dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli per estorsione con l’aggravante dell’articolo 7 della legge Falcone. Secondo l’accusa Eduardo Marano, 49 anni e Patrizia Licciardi, 41enne, avvalendosi della forza intimidatrice derivante dal legame con il clan Licciardi per ragioni di parentela, ricorrevano ad estorsioni anche per impinguare le casse dell’organizzazione malavitosa con base nella Masseria Cardone. Marito e moglie sono originari di Secondigliano ma da qualche temposi sono trasferiti a Terracina in via della Vittoria e proprio a casa sono stati bloccati e ammanettati all’alba di ieri. L’attività investigativa della stazione di Arpino di Casoria ha permesso di raccogliere elementi “inconfutabili” (secondo gli autori delle indagini ma naturalmente ora al vaglio della magistratura giudicante) a carico degli arrestati. I due, dal 2002 al giugno 2008, avrebbero partecipato all’attività di estorsione del clan Licciardi ai danni di commercianti ed imprenditori della zona. Questi ultimi, sottoposti a continue minacce e intimidazioni, per far fronte alle pressanti richieste erano costretti al pagamento di somme di denaro o ad alienare proprietà in loro possesso. Fino a quando un grossista, ridotto al dissesto finanziario e determinato persino a togliersi la vita, è stato convinto dai carabinieri a desistere dall’intento e a denunciare le angherie subite. L’uomo avrebbe versato nel corso del tempo all’organizzazione criminosa beni per più di 1 milione di euro. I due fermati (lei, incensurata, sorella di vincenzo “’o chiatto” e maria “’a piccolina”; lui già noto alle forze dell’ordine e ovviamente cognato dei ras) erano sotto osservazione dei carabinieri di Terracina, che stavano indagando per capire se volessero trasferire il modello criminale fuori zona. Ma non erano emersi indizi a loro carico sufficienti per un’altra misura restrittiva. I fermati sono stati trasferiti alle case circondariali di Latina e Roma-Rebibbia e nei prossimi giorni saranno interrogati dal gip.

Sequestrati i beni al ras degli Scissionisti Rosario Pariante

Si fa luce sui rapporti tra criminalità organizzata e gestione degli ormeggi nell’area di Bacoli e Baia. Quattro ditte attive nel settore sono state denunciate all’autorità giudiziaria e sequestrate perché operanti per conto di Rosario Pariante, esponente di spicco degli scissionisti di Secondigliano. L’operazione ha coinvolto 4 soggetti intestatari di tre società operanti nella gestione degli ormeggi e nella nautica da diporto, in particolare la ”D.N.B. Srl” di Bacoli, la ditta individuale ”D. C. di Pasquale Capuano”, situata a Giugliano in Campania, e la ditta individuale ”Gennaro Capuano” di Pozzuoli, per un valore totale di oltre un milione e mezzo di euro. I finanzieri del comando provinciale di Napoli, unitamente a personale del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, con il supporto della sezione operativa navale della guardia di finanza, stanno eseguendo provvedimenti di perquisizione e sequestro di beni ed attività economiche - emessi dalla Dda di Napoli - riconducibili ai Di Lauro. Nel corso delle investigazioni patrimoniali svolte dagli specialisti del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli e dello Scico è emerso che Pariante, membro del clan passato poi al gruppo degli scissionisti nel 2005, durante la sanguinosa faida di Secondigliano, aveva esteso la sua influenza criminale sulle zone di Baia e Bacoli, dove stava scontando il periodo comminatogli di sorveglianza speciale. A fare luce sui rapporti tra Pariante e la famiglia Capuano di Bacoli, titolare di due delle aziende sequestrate e impegnati nella gestione degli ormeggi della zona nonché proprietari di un’impresa di demolizione nautica, le ricostruzioni dei finanzieri coadiuvati dal contributo offerto dalle dichiarazioni di Maurizio Prestieri e di suo nipote Antonio. I Prestieri, anche loro appartenenti al clan Di Lauro e poi passati agli scissionisti. Proprio loro hanno spiegato agli inquirenti che Vincenzo Capuano, meglio conosciuto nella zona come ”o’ piattaro” utilizzava le attività economiche della famiglia per operare a tutti gli effetti come prestanome di Pariante, un trucco servito finora per eludere le disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale. Fondamentali, quindi, proprio le informazioni fornite alle forze dell’ordine dai Prestieri, collaboratori di giustizia dal maggio 2008: Un ”cambio di rotta” arrivato per Maurizio dopo una carriera criminale iniziata a 17 anni, sotto l’ala dell’amico-fratello Paolo Di Lauro. Da tre mesi, invece, racconta ciò che sa dell’organizzazione del clan e delle sue attività illecite. Ha tratteggiato la figura di Paolo Di Lauro, del suo ruolo primeggiante all’interno del gruppo. Di come erano organizzate le piazze dello spaccio e di chi fosse il gestore della cocaina, chi dell’eroina, chi dell’hashish. Ha raccontato insomma come viveva e si autofinanziava il clan che riusciva a produrre oro dalle vele, milioni di euro, dallo smercio della droga a pusher e narcos di tutta Italia. Ha tirato in ballo anche persone che attualmente non fanno parte del procedimento in corso dinanzi alla seconda corte d’appello del tribunale di Napoli. Ma il traffico di ingenti quantitativi di droga, ha rivelato il neo-collaboratore, è solo uno dei lucrosi affari della cosca guidata da Paolo Di Lauro. Dalle sue prime dichiarazioni sono emersi i nomi di chi gestiva i traffici di droga, chi quelli del contrabbando e chi invece le estorsioni milionarie: tra le attività del gruppo capeggiato da Paolo Di Lauro, ha confidato Prestieri, il contrabbando era gestito direttamente da Vincenzo Di Lauro, figlio di “Ciruzzo ’o milionario”; Vincenzo si avvaleva di un tale “Pierino”, che abitava in via Svizzera.

domenica 13 luglio 2008

Pasquale Scotti della NCO di Cutolo è ancora vivo?

Di sicuro c’è solo che non è morto. Almeno, non per i familiari. Lui, Pasquale Scotti, l’imprendibile super-latitante della camorra cutoliana degli anni Ottanta, ha lanciato nella confusione generale un impercettibile segnale a chi sa leggere la filigrana sottile del codice della malavita, testimonianza di vita nascosta tra le righe del manifesto funerario del fratello Giuseppe. L’uomo, 51 anni, è morto il 27 giugno scorso a Casoria, stroncato da una malattia. Le vecchie indagini sulla Nco ne hanno descritto, in più di un’occasione, il ruolo di gestore occulto e attento degli affari (illegali e non) del più famoso fratello, costretto a una fuga senza fine dopo la rocambolesca evasione dall’ospedale civile di Caserta, la notte del 24 dicembre 1984. Da allora, di Pasquale Scotti non si sono più avute notizie: si è ipotizzato, addirittura, che potesse essere rimasto vittima - lui che ne era il maestro - della lupara bianca, inghiottito da qualche tonnellata di cemento armato utilizzata per lastricare sperdute autostrade della provincia partenopea, o ucciso dal peso dei segreti di quella sciagurata stagione di connivenze tra politica, servizi segreti e criminalità organizzata. Invece, non sarebbe così: perché a Caivano e a Casoria, dove sono comparsi poco più di due settimane fa i manifesti funerari, c’è un particolare che non è passato inosservato alle centinaia di occhi che li hanno letti e alle centinaia di bocche che ne hanno parlato e alle centinaia di orecchie che hanno ascoltato. Poco sotto la notizia della scomparsa di Giuseppe Scotti, infatti, c’è scritto: «Ne danno il triste annuncio la moglie, il figlio, le figlie, la mamma, il fratello, la sorella, i cognati i nipoti e i parenti tutti». E in paese si sa che Giuseppe Scotti aveva un solo fratello: Pasquale. Fare domande in giro è impossibile, cercare di comprendere che cosa significhi questo messaggio offre, nella migliore delle ipotesi, un’unica risposta: sguardi nervosi e carichi di paura. Gli anziani che trovano ristoro nei pressi della chiesa di San Benedetto, a Casoria, dove si sono svolte le esequie, voltano la faccia dall’altro lato. Tranne uno, che quasi si arrabbia perché, a distanza di così tanti anni, ancora si parla di “Pasqualino”, come lo chiama quasi con affetto. La sua spiegazione è questa:«Forse per il resto della famiglia non è morto e scriverlo sul manifesto è un segnale di speranza». Ma se non fosse così e fosse davvero vivo, bisognerebbe forse riscrivere gli ultimi venti anni di storia criminale napoletana e rimettere le mani in quel cesto di vipere popolato da spioni, killer, terroristi e politici privi di scrupoli che - racconta il libro pubblicato recentemente da Tullio Pironti, I misteri della camorra - «lasciarono morire nella prigione del popolo il presidente della Dc Aldo Moro per salvare un discusso assessore regionale di nome Ciro Cirillo». E proprio la turpe storia di Ciro Cirillo - sussurrano in paese - potrebbe essere stata la condanna a morte di Pasquale Scotti. O la sua assicurazione sulla vita.

venerdì 11 luglio 2008

Il 30enne Gennaro Cirelli è il nuovo reggente del clan Licciardi

Un tempo neppure molto lontano il clan Licciardi era gestito solo da Licciardi. Gennaro ’a scigna è stato il primo leader della dinastia. Poi, dopo la sua morte, sono arrivati Pierino ’o fantasma, Vincenzo ’o chiatto e Maria la piccolina. Tutti fratelli. E tutti accomunati da un incredibile spessore criminale. Grandi menti della camorra. La famiglia erano loro. Loro e loro soltanto. I figli, gli eredi, i designati successori al trono, sono altra cosa. Altra ‘pasta’, altro carisma. Meglio, senza carisma. Nel clan lo sapevano tutti, e ne erano consapevoli pure i boss, al punto tale che sono stati gli stessi padrini a scegliere come loro vice e futuro capo un estraneo, uno che in famiglia c’era entrato grazie ad un lontano rapporto di parentela acquisito per il tramite della moglie. Gennaro Cirelli, la stoffa del camorrista doc, ce l’aveva davvero. Benché giovane, più vecchio ma solo di poco dei fratelli Giovanni e Pietro Licciardi, che, all’indomani dell’arresto degli zii, già assaporavano il momento in cui avrebbero impugnato lo scettro del potere, certi di meritarlo in ragione del fatto che il padre era il potente e temuto Gennaro ’a scigna. Loro, gli eredi, sono rimasti delusi. Scavalcati da un gregario quasi sconosciuto agli archivi delle forze dell’ordine. Gennaro Cirelli, Gerry per gli amici, è sotto processo insieme al boss della Torretta Rosario Piccirillo ’o biondo per usura ed estorsione ai danni di un imprenditore. Avrebbe fatto da mediatore tra la vittima e il malavitoso: questo sostiene la procura, questo è quello che i giudici della prima sezione penale del tribunale puntano a capire. Il processo è ancora in corso e Cirelli lo sta affrontando da libero. Nella sua fedina penale nessun’altra macchia. Eppure di lui dicono che è un capo. Il vero capo. “Il solo che aveva la possibilità di mantenere le alleanze con gli altri clan”, ha spiegato ieri mattina Vittorio Pisani, il capo della Squadra Mobile. Ma anche quello che “cura in ausilio di Antonio Errichelli la corresponsione agli affiliati” e che predispone le azioni di fuoco. Ci sarebbe la sua mano dietro alcuni degli agguati che si sono consumati nella Masseria Cardone durante la scissione dal clan operata da Giovanni Cesarano. Gli inquirenti ne sono certi e hanno inserito la loro convinzione negli atti dell’inchiesta che ieri mattina è culminata nell’esecuzione di 38 ordinanze di custodia cautelare in carcere. “Nel clima di tensione creatosi a seguito della scissione operata da Giovanni Cesarano - c’è scritto nel provvedimento di fermo - egli organizza, unitamente ad Antonio Errichelli, l’attentato a Vincenzo Allocco, ormai transitato tra le fila degli scissionisti dei Cesarano. Ed ancora organizza l’attentato alla vita di uno degli avversari scissionisti del rione Berlingieri, probabilmente Francesco Feldi”. Un boss a tutti gli effetti. Che ha assunto in via definitiva il comando dallo scorso 7 febbraio, giorno in cui è finita la latitanza di Vincenzo Licciardi con il quale Gerry era in “contatto diretto” e dal quale riceveva le direttive. I figli di Gennaro ’a scigna i suoi secondi. Ma non perché fossero particolarmente capaci. “Per ragioni dinastiche erano anche loro i capi - ha spiegato Pisani -, ma non prendevano decisioni sulle questioni più importanti quali erano le alleanze”, anche perché quando l’hanno fatto, quando sono stati messi alla prova, hanno giocato male la possibilità loro accordata “dimostrando - si legge nell’ordinanza - una certa incapacità nella gestione del clan, che aveva cagionato anche diversi malumori tra gli affiliati e gli alleati”. Anche quest’era è finita. Dei Liccardi non resta quasi più nulla.

La situazione attuale della camorra a Nord di Napoli - 2°parte

La tregua siglata tra clan Di Lauro e ‘spagnoli’ aveva stabilito nuovi confini. I gruppi di spacciatori avevano dovuto adeguarsi e ‘migrare’ da una piazza all’altra. Gli equilibri restano precari, anzi sono tornati precari. Gli scissionisti, quelli che la prima ‘grande guerra’ per il controllo delle piazze di spacico dell’area nord l’hanno vinta, sono stati protagonisti di quelle ‘eliminazoni a orologeria’ che servivano a regolare i conti in sospeso. “Gigino gestisce al piazza di spaccio di piazzetta Berlingieri e si rifornisce dai Licciardi”. E’ quanto emerse dai verbali del pentito De Carlo che parlò dei nuovi assetti degli affari e del territorio nella zona di Secondigliano. “E’ organico al clan e commette anche azioni di fuoco per i Licciardi della Masseria Cardone”. E’ molto cambiato l’assetto dalla gestione dei Di Lauro. Era un’organizzazione perfetta quella gestita dai Di Lauro. Un’organizzazione soporattutto "moderna’. I traffico di stupefacenti gestito come un vero e proprio ‘multilevel’ e Paolo Di Lauro è stato il primo narcotrafficante ad applicare il ‘multilevel’ allo spaccio di stupefacenti. Ma ora le cose sono cambiate. I nuovi sviluppi investigativi hanno lasciato emergere una realtà che sta mutando di continuo. E anche su questa transazione il vertice della piramide ricavava ulteriori introiti derivanti soprattutto dall’“affitto” dei suoli (le piazze) sulle quali avveniva la compravendita di sostanze stupefacenti. Ora la droga non viene comprata “all’ingrosso” e successivamente lavorata. La droga viene acquistata dall’organizzazione già divisa in dosi pronte ad essere spacciate e i vertici, che hanno scelto di bypassare tutte le figure intermedie, la rivendono direttamente ai pusher. I grossi calibri dell’Alleanza hanno quindi colonizzato rioni e quartieri col placet degli scissionisti. Ma quando un personaggio ha uno spessore tanto ingombrante, fa quello che nella sua indole sente di fare: conquistare sempre più spazio e più potere. E’ così, con quest’anelito di espansione, che tra i Licciardi e i cosiddetti ‘spagnoli’, sono cominciati gli attriti. Chi era stato messo al vertice di alcuni rioni chiave (affiliati della prima ora al gruppo della Masseria Cardone) ha deciso di farsi largo, di prendere spazio, anche a costo di mettersi contro il direttorio di cui allora era al vertice il padrino Vincenzo Licciardi. Questioni di soldi. Gli scissionisti dei Licciardi (a differenza di quelli dei Di Lauro) hanno un nome: si chiamano Sacco-Bocchetti. E alle loro spalle si staglia imponente l’ombra dell’organizzazione malavitosa dei Lo Russo del rione San Gaetano.

La situazione attuale della camorra nell'area Nord di Napoli

“Sono due i maxicartelli che si contrappongono nell’area nord. Da una parte quello che fa capo agli Amato-Pagano, Sacco-Bocchetti e Lo Russo. Dall’altra i reduci dell’Alleanza di Secondigliano, ovvero i Licciardi, i Contini e i Mallardo di Giugliano”. E’ quanto ha affermato il capo della squadra mobile, Vittorio Pisani a seguito dell’operazione che ha visto impegnate forze di polizia e uomini della guardia di finanza e che ha portato alla cattura di 38 persone ritenute legate alle organizzazioni malavitose dell’area nord. “La rottura tra i Licciardi e il gruppo dei Sacco Bocchetti si è verificata a seguito dell’omicidio di uno dei luogotenenti della cosca della Masseria Cardone, Carmine Grimaldi. Il delitto fu compiuto nell’ottobre del 2007 a San Pietro a Patierno”. Il territorio, dalla fine della faida ha subito moltissimi mutamenti di assetto. A Secondigliano, il centro ‘nodale’ degli affari dell’area nord. C’erano d’apprima i Licciardi, sopraggiunti agli scissionisti (con loro delega). I luogotenenti della Masseria hanno dapprima amministrato, poi hanno deciso di gestire autonomamente parti di territorio nella zona a ridosso del rione Belingieri. Dall’altra i Sacco-Bocchetti, gruppo fiancheggiatore e organico dell’Alleanza di Secondigliano che ha spiccato il gran salto ed ha in pochi mesi del tutto estromesso quelli della Masseria Cardone dagli affari nella zona di Secondigliano. In via del Cassano, ormai il gioco è a due. Da quelle parti omai quasi tutti quelli che facevano parte del cartello della Masseria sono trasmigrati nel nuovo sodalizio. Tra questi ci sarebbero Cesarano (attualmente detenuto con l’accusa di estorsione) e il gruppo dei Feldi. La ‘campagna acquisti’ ha fatto sì che a ridosso del rione Kennedy gli affiliati ai Licciardi si ‘dissolvessero’. Sullo sfondo, tuttavia - raccontano gli inquirenti - si staglierebbe l’ombra imponente dei Lo Russo. I rapporti tra la Cupola di Secondigliano e gli scissionisti, lo scenario di camorra nella periferia a nord di Napoli, la divisione delle aree di competenza e degli affari tra le cosche, sono tutti temi sviluppati dagli uomini dell’Antimafia. Sullo sfondo di questi due macrocartelli c’è la famiglia Di Lauro, la cosca sconfitta dagli scissionisti dopo la faida delle Vele. Secondo le forze dell’ordine l’organizzazione di via Cupa dell’Arco che fa capo al boss Paolo, noto anche come Ciruzzo ’o milionario, è confinata nella zona del rione dei Fiori, il cosiddetto ‘Terzo Mondo’. Il clan di via Cupa dell’Arco, per gli investigatori, sarebbe fuori dal ‘giro grosso’.

Decapitato il clan Licciardi della Masseria Cardone

Trentotto persone arrestate, sei ricercati e cinque indagati a piede libero. Sono i numeri dell’ultima operazione anticamorra coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli e condotta dalla squadra mobile di Napoli e dalla guarda di finanza, un’operazione che di fatto segna il declino di un’intera organizzazione malavitosa, quella dei Licciardi, che sin dagli anni Ottanta ha calcato la scena del malaffare da protagonista, da “prima donna”. Da ieri la storia è cambiata. “Con questi arresticommenta sorridendo il procuratore capo Giovandomenico Lepore - abbiamo quasi decapitato il clan”. Infatti. I capi, i veri capi, quelli che portano i nomi di Vincenzo “’o chiatto”, Pierino “’o fantasma” e Maria “la piccolina” sono tutti detenuti da un pezzo. E in regime di carcere duro. Isolati da tutti e da tutto. L’ultimo ras, quello scelto al di fuori dei ranghi della famiglia per assenza di “intelligenze” interne, potrebbe seguire lo stesso destino. Gennaro Cirelli, 30 anni appena, l’hanno arrestato 24 ore fa, il 9 Luglio. Per associazione di stampo mafioso con l’aggravante di capo e promotore. Era lui che “cuciva” le alleanze con gli altri clan, lui che organizzava, curava e controllava gli affari di famiglia. Lui, ma non solo. Paolo Abbatiello, di Vincenzo Licciardi, ne è il cognato. Uno dei pochi che durante il periodo di latitanza del boss conosceva i suoi rifugi ed era autorizzato a recarsi presso le località segrete per discutere di “cose di casa”. Questo suo stretto legame di parentela con il padrino, unitamente al suo spessore criminale, ne ha fatto un pari grado di Cirella. Tra l’elenco delle persone finite in manette in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere a firma del giudice per le indagini preliminari della quarta sezione penale del tribunale di Napoli, il suo nome non c’è. E’ sfuggito alla cattura. E solo quando anche lui finirà in cella, la cosca della Masseria Cardone potrà considerarsi ‘morta’ per davvero. Ecco spiegata la prudenza nelle parole del procuratore Lepore nel corso della conferenza stampa organizzata nella tarda mattinata di ieri per illustrare il contenuto di un’inchiesta costruita per centrare due obiettivi: colpire “il profilo militare ma anche quello patrimoniale”, la “strategia preferita” dalla Dda, come spiega Roberti, e che sarà usata “con perseveranza anche in futuro”. Lo scopo è stato raggiunto: oltre agli arresti, è stato eseguito un sequestro di beni per un valore di poco superiore ai 300 milioni di euro, una cifra che mai prima di oggi era stata ‘sottratta’ alla camorra. I sigilli sono stati apposti ad appartamenti, a fabbricati, a terreni, a polizze assicurative, ad autovetture e a motocicli di lusso, ma soprattutto a società e a quote di partecipazione in società operanti nel settore calzaturiero ed immobiliare, a conferma, ancora una volta, della vocazione imprenditoriale della famiglia Licciardi, che già anni fa aveva investito i suoi capitali illeciti nel commercio parallelo gestito dai magliari. Arezzo, Massa Carrara, Roma e Frosinone erano i “paradisi fiscali” del clan, le “oasi felici” dove operavano le imprese di famiglia all’apparenza pulite. E’ stato tutto scoperto con lo strumento delle intercettazioni, telefoniche ma soprattutto ambientali, iniziate per stanare il latitante Vincenzo Licciardi. L’utenza di Giuseppe Barbato è stata la prima a finire sotto controllo, perché lui, il cassiere del clan, era di certo a conoscenza del nascondiglio della primula rossa. Poi è stato tutto un susseguirsi di operazioni di “spionaggio”. Sono state piazzate cimici nella sala colloqui dei penitenziari dove erano detenuti Maria Licciardi e Giovanni Cesarano, nonché nelle abitazioni di personaggi di spessore del gruppo, come Gianfranco Leva e Francesco Matafora. Le dichiarazioni dei pentiti, che non mancano neppure in questo caso, sono servite solo per puntellare un lavoro già completo, per aiutare l’Antimafia a tratteggiare al meglio gli scenari malavitosi dell’area a nord di Napoli e la gestione degli affari illeciti del clan. Giovanni Piana, ad esempio, ha parlato molto della droga. Pasquale Gatto, invece, ha tracciato tutta la storia criminale dei Licciardi, dal momento che del sodalizio della Masseria Cardone è stato uno storico affiliato prima di passare con i Misso e poi con i Torino. Per Carmine Alfieri e Pasquale Galasso vale lo stesso discorso. E, per finire, c’è Gennaro Panzuto, che dei Licciardi ha i ricordi più ‘freschi’ di tutti. Giovanni Licciardi, il figlio del defunto boss Gennaro, è il personaggio sul quale si sofferma più a lungo, perché è con lui che è entrato in contatto per “questioni” legate al traffico di droga. Il materiale è corposo. Gli indagati lo sanno perché l’ordinanza è stata consegnata loro insieme alle manette. L’hanno studiata per una notte intera. La notte prima degli esami. Anzi, dell’esame. Quello che dovranno sostenere dinanzi al gip.

Sentenza per i Di Biase dei Quartieri Spagnoli

Per anni, i Di Biasi, all’indomani dell’uscita di scena della famiglia Russo, hanno gestito gli affari illeciti nei Quartieri Spagnoli. Ieri 8 Giugno , poco dopo le cinque, il giudice delle udienze preliminari della venticinquesima sezione penale del tribunale di Napoli ha firmato la prima sentenza di condanna che individua i Faiano come malavitosi. Dieci le persone ritenute colpevoli per i reati, contestati a vario titolo, di associazione di stampo mafioso e racket, 106 gli anni di reclusione complessivi stabiliti al termine del processo definitosi con la modalità del rito abbreviato. Una vittoria processuale che premia un lungo lavoro investigativo iniziato sulla scorta di intercettazioni telefoniche e poi arricchitosi dalle dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia, molti dei quali ex gregari dei Di Biasi passati dalla parte dello Stato all’indomani della retata che nella primavera dello scorso anno azzerò la famiglia dei Quartieri Spagnoli la cui ascesa era stata benedetta, come raccontato dalle gole profonde, dai Mazzarella prima e dai Misso poi. Il pugno di ferro è stato usato nei confronti di Luigi Di Biasi, ritenuto il capo indiscusso del clan: nei suoi confronti sono stati disposti diciassette anni, nove mesi e dieci giorni di galera, una pena di non molto inferiore a quella proposta dal magistrato inquirente che sperava in una condanna a 20 anni. Severo anche il verdetto pronunciato per Renato Di Biasi, fratello di Luigi: 13 anni, 10 mesi e 20 giorni. Dodici anni, due mesi e venti giorni sono stati invece inflitti a Ciro Saporito, colui il quale si occupava del racket delle estorsioni per conto della cosca. Dopo di loro la pena più alta disposta è quella che ha interessato un collaboratore di giustizia: Raffaele Scala, il cognato dei Di Biasi, ha rimediato 11 anni e nove mesi per camorra con l’aggravante di capo e promotore. Poteva andargli peggio: il gup gli ha concesso l’attenuante prevista per i collaborati di giustizia, prendendo le distanze dalle conclusioni del pubblico ministero che per l’imputato aveva invocato 20 anni, chiedendo esplicitamente al giudice di togliere a Scala qualsiasi beneficio previsto per i pentiti e questo perché erano ancora in corso verifiche sulla sua attendibilità. Di pochissimo inferiore la pena emessa nei confronti di Luciano Boccia: undici anni ed otto mesi. Dieci anni invece sono stati disposti per Ciro Piccirillo, Sergio Parmiggiano e Massimiliano Artuso (questi ultimi due imputati anche nel processo di primo grado sul ‘voto inquinato’ delle elezioni amministrative della primavera del 2006). Pochi sconti a Giuseppe Scala, figlio di Raffaele Scala: gli sono stati inflitti 8 anni e 4 mesi e senza attenuanti della collaborazione con la giustizia, atteso che da ieri mattina il nipote dei Di Biasi non è più un pentito per volere dell’Antimafia. Sei anni e mezzo è la pena inflitta a Massimiliano Artuso, cinque anni è quella stabilita per Salvatore Scala, l’altro figlio di Raffaele Scala al quale è stato revocato lo status di collaboratore di giustizia. Una sola l’assoluzione disposta dal giudice: Salvatore Di Biase, nipote dei boss, è uscito pulito dal processo, le accuse contro di lui si sono rivelate infondate. Si chiude così il primo processo istruito a carico della cosca dei Faiano (sono in corso altri due filone, uno per omicidio ed un altro per camorra e racket che segue la strada ordinaria). Ci sarà un altro grado di giudizio: la difesa presenterà ricorso in appello non appena verrannodepositate le motivazionialla base della sentenza.

lunedì 7 luglio 2008

La Storia della famiglia Vollaro di Portici

Solo due guerre di camorra. L'una tra il 1977 ed il 1997, l'altra che ha interessato gli ultimi mesi del 2001 ed i primi del2002. Una guerra intestina la prima, che avrà fatto poco più di venti omicidi. Una faida tra due gruppi opposti (Vollaro e Cozzolino) la seconda. Questa è Portici, una sorta di isola 'felice', perché qui il peso della camorra non è oppressivo come nella vicina Ercolano, contesa da anni tra due cosche. La contesa genera tensioni, e a Portici le tensioni non ci sono. Un solo territorio per un solo clan. Che gestisce ogni tipo di affare. Dalle estorsioni alla droga. Tutto nelle mani di una sola famiglia, i Vollaro, la famiglia fondata da Luigi Vollaro, soprannominato il 'califfo' per le sue doti di latin lover: 27 figli avuti da una decina di relazioni. Luigi Vollaro, originario di San Sebastiano, nasce il 18 dicembre nel 1932. Entra a far parte della Nuova Famiglia del boss, pentito, Carmine Alfieri. Uno dei primi capiclan a schierarsi con i l signore di Piazzolla di Nola nella lotta alla Nuova Camorra Organizzata del professore di Ottaviano Raffaele Cutolo. Ed è all'interno di questo cartello, che i Vollaro stringono le proprie alleanze, con i Birra-Iacomino di Ercolano (alleanza ancora tuttora forte, tanto quanto le ostilità con gli Ascione), con gli Abate detti "dei Cavallari" di San Giorgio a Cremano, gli Anastasio di Sant'Anastasia, i De Luca Bossa di Ponticelli, i Marfella del quartiere Pianura, i Veneruso di Volla e gli Sparandeo di Benevento. Vollaro viene arrestato dopo tre anni di latitanza nel 1982, sospettato dell'omicidio di un suo gregario, il 24enne Giuseppe Mutillo ucciso nel 1980. Omicidio per il quale Luigi Vollaro
incasserà il primo ergastolo, condanna diventata definitiva. A questo si affiancherà nel 2003 la condanna al carcere a vita per l'omicidio di Carlo Lardone, altro gregario dei Vollaro. Nel 1992 Luigi Vollaro viene sottoposto al regime del carcere duro, uno dei primi boss di camorra nei confronti del quale il Dap dispone il 41 bis, regime sempre prorogato, mai revocato(attualmente è detenuto presso la casa circondariale di massima sicurezza di Parma). E' a questo punto che la gestione degli affari illeciti passa ai suoi figli: c'era bisogno di uomini in grado di muoversi sul territorio, di uomini che potessero intervenire in prima persona nel caso in cui si verificassero problemi. E allora ecco che Pietro e Giuseppe, i più grandi tra gli eredi, vengono
investiti del potere, affiancati da un altro fratello Raffaele, che finisce in prigione nel 2001, accusato e condannato per aver intascato tangenti da Carmela Licenziato al fine di consentire a lei, che non era organicamente inserita nel sodalizio, di vendere droga in città. Fuori dagli affari di famiglia è invece Antonio Vollaro (altro figlio del Califfo), ingiustamente detenuto per anni per un omicidio commesso dal fratello pentito Ciro, che, con le sue confessioni, unitamente a quelle dei pentiti Francesco Di Pierno e Francesco Pariota, ha contribuito ad assestare un duro colpo alla famiglia.