I capi latitanti dei Casalesi «avrebbero minacciato di morte alcuni investigatori, ipotizzando anche attentati in danno di uffici investigativi. Tali messaggi appaiono, allo stato, non privi di fondamento». È l’allarme contenuto nella circolare che, agli inizi di agosto, i ministeri dell’Interno e della Difesa hanno diramato a questure, comandi dei carabinieri e squadre speciali delle forze dell’ordine che si occupano del temibile clan casertano. La cosca, secondo le informazioni in possesso dei servizi di sicurezza, avrebbe progettato l’uso di armi da guerra e, in particolare, di potenti “lanciarazzi” contro gli apparati inquirenti che, da almeno un anno a questa parte, stanno lavorando per smantellare le ali militare ed economica della holding criminale. L’allarme ha destato non poca preoccupazione negli uffici giudiziari partenopei, dal momento che l’aggressione allo Stato sarebbe la naturale conclusione di un percorso stragista, intrapreso dall’organizzazione, che ha visto prima la pulizia etnica nei confronti dei parenti dei collaboratori di giustizia e poi una cruenta azione di rappresaglia verso gli imprenditori che si erano ribellati al pizzo. Lo stesso procuratore aggiunto Franco Roberti, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, aveva parlato, in occasione dell’omicidio di Michele Orsi, di «un salto di qualità della strategia dei Casalesi di attacco ai soggetti che collaborano per contrastare i clan», sottolineando l’importanza di un’efficace attività di contrasto, attraverso la “cattura dei latitanti, come Michele Zagaria, Antonio Iovine ed altri, che stanno sparando”. Si ripeterebbe, in pratica, quella stessa folle tattica dell’orrore che sperimentarono i Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano agli inizi degli anni Novanta, quando la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxi-processo mise in seria difficoltà la commissione regionale di Cosa nostra, obbligandola a difendersi attaccando. Anche per i Casalesi, si è ipotizzato un collegamento tra l’escalation di violenza in Terra di Lavoro e la sentenza d’appello “Spartacus”, che ha confinato all’ergastolo i padrini del vecchio gruppo dirigente, a due dei quali - Francesco Sandokan Schiavone e Francesco Bidognetti - qualche giorno fa è stato inasprito il regime di carcere duro con l’isolamento totale per sei mesi. All’origine del provvedimento, si legge nel documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’accusa di «non aver impedito la mattanza realizzata negli ultimi mesi dal clan di Casale, che ha portato avanti una strategia del terrore, uccidendo anche testimoni e collaboratori di giustizia». Un particolare che, dunque, collega in un flusso mai interrotto di informazioni e di direttive i padrini detenuti e il resto dell’associazione. Attribuendo la paternità degli attentati di questi ultimi mesi a decisioni congiunte di boss ergastolani e super-latitanti. I quali ultimi, adesso, avrebbero ipotizzato la sfida diretta al cuore dello Stato.
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